Anna Ginsburg è un’artista britannica e ha una sorella anoressica. Profondamente colpita dal disagio e dalle sofferenze della sorella svolge una ricerca su un tema complesso e spinoso: la bellezza femminile. Ne produce un cortometraggio di animazione emozionante e poetico con cui cerca di rispondere all’annosa questione: Cos’è la bellezza? 

Il video suggerisce la risposta attraverso una danza di corpi femminili che in realtà sono sempre lo stesso. Intero e poi smembrato, ingrandito e rimpicciolito, moltiplicato, amputato, riorganizzato, ingrassato e di nuovo dimagrito, tirato, storpiato, ingentilito, denudato e rivestito, violato e poi curato, come spesso accade al corpo delle donne.
Una danza che dura da più di  2000 anni, e che racconta l’impossibilità di definire la bellezza senza sapere in quale momento storico e in quale contesto culturale venga posta la domanda.

Ci spiega la Ginsburg, che ciò che sembra oggettivo, vero e senza appello è invece labile, soggettivo e influenzato dal momento storico.
In una manciata di minuti ci racconta che le Tre grazie prosperose e piene di cellulite dipinte da Rubens erano la bellezza del 1600 e che la taglia 40 di Twiggy rappresentava il massimo della femminilità negli anni ’70 del secolo scorso. Denuncia  quanto sia superficiale e causa di ferite profonde rifarsi ad un concetto di bellezza oggettivo e universalmente riconosciuto, e dice che prima di giudicare un corpo femminile bisogna studiare un po’ di storia. 

Nel libro Storia della Bellezza, Umberto Eco scrive che la bellezza non è mai stata un assoluto e immutabile, ma è mutata a seconda del periodo storico e del luogo. I canoni che regolano il giudizio estetico sono da sempre legati a parametri storici, culturali e sociali.
A condizionare la nostra concezione della bellezza sono fattori complessi che interagiscono con l’universo simbolico che ordina le relazioni umane, fattori che hanno a che fare con le gerarchie sociali, la produzione della ricchezza, i valori morali, le ideologie del corpo correnti. Sono criteri che creiamo noi, criteri diversi in momenti storici diversi. 

Ma quando giudichiamo e veniamo giudicate, questo spesso ci sfugge e cerchiamo di conformarci a canoni estetici che riteniamo universali. Quando la cultura ci propone pelle liscia, viso truccato alla perfezione, muscoli tonici, pancia piatta, tacchi alti, unghie laccate etc, costringiamo il nostro corpo dentro una gabbia di comportamenti e pratiche vicine alla tortura, e spesso lo odiamo. Rinunciamo a guardarlo, rinunciamo a toccarlo, lo eleggiamo a simbolo del nostro fallimento personale, a volte lo odiamo tanto da cercare di sopprimerlo. E questo è molto triste, ingiusto e non ha nulla di oggettivo.

Confucio ha detto della bellezza: “Tutto ha bellezza ma non tutti la vedono”.

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