“Sul mio corpo passano tutte le tempeste” scriveva Carla Lonzi nella sua opera fondamentale Taci, anzi parla. Diario di una femminista pubblicato nel 1978. Di tempeste ingovernabili e corpi attraversati, ma soprattutto di femminismo (vivo, florido, in movimento), parla Il corpo elettrico, libro d’esordio di Jennifer Guerra, edito da Tlon.

Ne Il corpo elettrico, Guerra mette in parole l’esperienza femminile del corpo, testo fluttuante, narrante e narrato, in tensione costante tra lo spazio intimo dell’azione privata e quello investito dallo sguardo pubblico e politico che ne condiziona le libertà.

Il corpo delle donne è presenza e manifestazione, ma è anche luogo di dialogo e di sedimentazione di linguaggi e pratiche, di simboli e assetti sociali. È attraverso un sapere assorbito che il corpo apprende a posizionarsi nel mondo, un sapere attinto tanto dall’esperienza personale quanto da quella sociale, comune e condivisa.

Diremmo con Simone De Beauvoir che il corpo è lo strumento del nostro contatto col mondo. Ma cosa accade quando i corpi divengono soggetti di dispositivi di sapere e potere anche nelle dimensioni più intime dell’azione come mangiare, camminare, fare sesso e partorire? Cosa accade se i corpi o pezzi di corpi vengono investiti dalla dimensione economica e resi oggetti, dettagli, compiti, costruzioni, strumenti di misurazione e più di tutto spazi da presidiare e controllare? 

Se la storia scritta sui corpi delle donne non può emanciparsi dalla cornice politica del biopotere, ha ancora senso immaginare lo spazio intimo della carne e dei luoghi domestici come personali, sottratti alla dimensione politica? Oppure è il caso di riappropriarci della dimensione pubblica e politica del nostro personale piuttosto che consegnarla alle istituzioni di turno?

Ciò che suggerisce Guerra è di ripartire dal desiderio personale per trasformarlo in desiderio politico. Come? Tornando a parlare di noi, usando le differenze per reclamare unione e forza, riscoprendo il valore della sorellanza, opponendo resistenza ai diktat imposti dalla cultura occidentale, patriarcale e sessista.

Se il corpo è un testo della cultura, un artificio, allora è anche qualcosa che possiamo riscrivere. La nuova sfida sarà ribaltare i saperi, le culture egemoni che si impongono sulla fisicità, i codici e le convenzioni legate al genere e all’identità, la separazione dei ruoli, le strutture binarie in cui ci hanno ingabbiato.

Smettiamo di pensarci come identità fisse date dalla natura, e cominciamo a guardarci per ciò che siamo: corpi elettrici, in movimento, ibridi e transitori, somma di molte cose. Corpi rivoluzionari, desideranti. Corpi anche pubblici, uniti ad altri corpi pubblici.

Solo in questo modo potrà farsi spazio una politica di liberazione possibile dei corpi, dai corpi.

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