“Una stretta di mano, inizia tutto da lì”. E infatti colpisce il dettaglio su cui Marco Ferrari si sofferma nel suo notevole La Bufera – Cronache di Ordinaria Corruzione, documentario che trovate sulla piattaforma di MyMovies e in programmazione digital fino a fine marzo in occasione della rassegna A Tutto Schermo promossa da Rete degli Spettatori. L’opera, come ci ha raccontato il regista in una lunga chiacchierata, racconta la complicata vita di quei whistleblower che hanno avuto il coraggio e il senso civico di denunciare e portare alla luce un tentativo di corruzione. E lo stile che mette in scena Ferrari, a metà tra la fiction e la cronaca, è assolutamente coinvolgente, fin dall’inizio, quando ci troviamo letteralmente faccia-a-faccia con i protagonisti di queste vicende. Interviste che mettono in risalto un modus operandi sempre diverso ma sempre simile: il tentativo di coinvolgimento, l’intimidazione, l’isolamento e, per finire, il mobbing. Se la confezione cinematografica non sbaglia un colpo (con menzione alla fotografia di Stefano Govi) ed è espressamente pensata per il grande schermo, la sceneggiatura va ad “illuminare il più possibile il quadro generale della situazione, in modo tale che venissero raccontate storie urgenti come queste”.

Marco, come nasce il tuo documentario?
Ho iniziato a lavorare al progetto alla fine del 2015, collaboravo socialmente con l’associazione Riparte il Futuro, diventata poi The Good Lobby, e tra le cause che portavano avanti c’erano quelle dei whistleblower. Mi presentano uno di loro, l’incontro era informale ma la sua vicenda sembrava un thriller. Ho iniziato a fare ricerca, il fenomeno è importante in Italia. Per assurdo i media non ne parlano molto, perché coloro che denunciano non vengono enfatizzati. Eppure vale la pena raccontarli e tutelarli. Lavorando al film mi sono reso conto che una storia sola non era abbastanza. Le epopee che hanno vissuto erano simili nelle dinamiche. Da lì si è sviluppato un racconto collettivo.

C’è un dettaglio che ricorre, soprattutto all’inizio: la stretta di mano.
La stretta di mano è una metafora, perché tutto parte da un rapporto stretto di lavoro, quasi un’amicizia. Il loro è un rapporto diretto, perché sono dei subalterni, e perché è il loro capo che mette in moto questo percorso di abuso di potere. I crimini arrivano da una cerchia che pensi di conoscere.

Come hai lavorato sulle loro storie?
Sono rimasto aderente ai loro racconti, c’è poca fiction. Ho messo in piedi un resoconto, c’è un sentimento e non una messa in scena vera e propria. Il tentativo fatto con il documentario era dare un quadro esaustivo della situazione. Una situazione che tocca molte aziende, dalle piccole alle medio-grandi.

C’è un passaggio ne La Bufera particolarmente interessante. È incredibile che chi denuncia poi venga messo alle corde dalla società.
È una delle pratiche di mobbing più frequenti, i primi tentativi sono legati al rendere la vita difficile, ma poi si instaurano meccanismi più pressanti. Non ti licenziano ma ti stressano a livello psicologico.

Questo modo di dire agire cosa riflette?
Una cultura del lavoro dove ancora oggi prevale questo meccanismo. Non volevamo esporre dei singoli casi, bensì una modalità culturale che ancora oggi è preponderante. Ha ancora senso lavorare in questo modo?

Si nota subito che La Bufera è curatissimo in tutti i suoi aspetti.
Abbiamo impostato il film per il grande schermo, sia visivamente che al livello sonoro. La scelta della fotografia è abbastanza inusuale per lo streaming. Lavoravamo con il monitor ma dopo mesi di lavoro siamo andati in prova sul grande schermo, e ci siamo resi conto che funzionava tutto.

La Bufera esce in digital. Cosa ne pensi del confronto tra piattaforme e sala?
Il cinema visto in sala e in streaming è diverso. Il film in streaming è suggerito dalle piattaforme, ma dall’altra parte è buono perché è capillare. Se riesci ad avere accesso ad una piattaforma arrivi a molta più gente, magari in quei paesi dove non esiste un cinema. In sala l’esperienza è totale, fai parte di un organismo e fai parte di un collettivo: si ride, si piange e l’esperienza è più coinvolgente. Mi piacciono entrambi. Devo dire però che i festival hanno avuto l’intuizione di aggregarsi, creando piattaforme. I festival, in fin dei conti, sono locali, e oggi riescono a raggiungere una platea molto più ampia.

Marco, perché hai scelto il documentario rispetto ad un film di fiction?
Ti dirò, il mio background è di fiction, e mi piacerebbe fare qualcosa in questo senso, ma ho trovato nel documentario un terreno interessante, in cui si può giocare con il formato e si possono fare degli esperimenti. Il documentario lascia molta creatività, da tutti i punti di vista. Si è aderenti alla realtà e si riescono a raccontare storie davvero urgenti.

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