Björn Johan Andrésen è un uomo sulla settantina, dal volto malinconico incorniciato da capelli lunghi e una barba che gli conferiscono un’aria ascetica e da vecchio mago (un po’ stile Gandalf).

Osservandolo bene, andando oltre la miriade di rughe sul suo volto, si riconosce un giovane attore divenuto famoso per il ruolo del quattordicenne Tadzio nel film del 1971 Morte a Venezia di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo racconto di Thomas Mann, presentato in concorso al 24º Festival di Cannes, grazie al quale Visconti venne anche insignito di un premio.

La trama del film (come la storia del romanzo) è incentrata sulla figura del compositore Gustav von Aschenbach che, ad inizio ‘900, si reca al Lido di Venezia per un periodo di riposo e qui incontra un giovanissimo ragazzo polacco, Tadzio, di cui si invaghisce perdutamente.

Luchino Visconti fece un viaggio tra Norvegia e Svezia per cercare il protagonista del suo film e alla fine scelse Björn Andrésen proprio per la sua particolare bellezza, quella da angelo della morte, la stessa che vediamo nella scena finale della pellicola, in cui Aschenbach, vittima dell’epidemia di colera che imperversa a Venezia e sempre più debole, trascorre i suoi ultimi momenti sulla spiaggia del Lido in contemplazione del suo amato.

To put the eyes on beauty is to put the eyes on death” (cit. L.V.)

La bellezza efebica di Tadzio

Björn Andrésen, che all’epoca del provino era uno sconosciuto, con Morte a Venezia conobbe una fama mondiale, proprio grazie alla sua bellezza efebica, la stessa che aveva attratto Visconti/Mann/Gustav von Aschenbach e a diventare “the most beautiful boy in the world“, etichetta trasformatasi nel tempo in una sorta di marchio indelebile.

The most beautiful boy in the world è anche il titolo originale del documentario/biopic del 2021 che narra le vicende di Björn Andrésen, da ragazzo orfano cresciuto da una nonna molto ambiziosa, al periodo di protezione vissuto sotto l’ala viscontiana (durante le riprese del film), fino alla solitudine e spaesamento provato negli anni successivi al film, con i dolori familiari e i guai causati dall’alcolismo.

Il documentario, in realtà, è una narrazione fatta in prima persona, in cui, inevitabilmente, risulta difficile avere una percezione oggettiva degli avvenimenti e un grado di libertà sufficientemente ampio per formulare una propria valutazione sui fatti accaduti.

Utile o meno che sia (ri)leggere alcune vicende ritenute assolutamente lecite nel passato con lo sguardo e la sensibilità moderna, ciò che è realmente interessante del documentario è la descrizione della classica “parabola del successo” di Björn Andrésen, il suo essere un antecedente al maschile del movimento MeToo e l’atto d’accusa che ne nasce contro un’industria e un sistema che usa e getta gli idoli che ha contribuito a creare, infischiandosi delle conseguenze.

Interessanti sono anche le riflessioni in merito alla percezione del corpo e all’ossessione per la bellezza (anche questa, tutta attuale). In tale contesto può essere letto il successo stratosferico che il ragazzo conobbe in Giappone, dove venne spedito dalla solita nonna ansiosa di capitalizzare al massimo il nipote “più bello del mondo”.

Björn Andrésen divenne una sorta di teen idol, suscitando isterie di massa (simili a quelle per i cantanti pop/rock) e contribuendo ad alimentare una certa iconografia manga.

La stessa bellezza ritrovata in Lady Oscar

Riyoko Ikeda nel 1971 aveva 25 anni. Costretta ad interrompere gli studi per mancanza di sostegno da parte della sua famiglia, per guadagnarsi da vivere aveva iniziato la carriera di mangaka, ovvero autrice di fumetti.

Negli anni settanta il manga shōjo (manga femminile), ossia quello destinato a bambine e ragazze adolescenti, iniziò a diffondersi con un certo successo, e si sviluppo notevolmente anche garzie al cosiddetto Gruppo del 24, ovvero un gruppo di mangaka donne nate intorno all’anno 24 (corrispondente al nostro 1949) di cui Ikeda è considerata parte.

Sempre nello stesso periodo Ikeda, rimasta affascinata da una biografia di Maria Antonietta dello scrittore austriaco Stefan Zweig (Maria Antonietta – Una vita involontariamente eroica), propose al suo editore l’idea di un manga che avesse come protagonista la vita della regina e come sfondo storico il Settecento.

Il manga è stato serializzato dal 21 maggio 1972 al 23 dicembre 1973 con il titolo di Versailles no Bara (pubblicato in Italia come Le rose di Versailles), e da esso venne tratto l’anime trasmesso in Giappone dal 10 Ottobre 1979 al 10 Settembre 1980.

In Italia la serie televisiva, la cui prima messa in onda fu nel 1982, conobbe un successo immediato grazie alla presenza di un personaggio immaginario, Lady Oscar, ossia Oscar François de Jarjayes, una donna cresciuta come un soldato da suo padre (che voleva un maschietto) e che, da protettrice della regina, aderirà al popolo durante i tumulti della Rivoluzione francese.

Ikeda, nel corso della serializzazione dell’opera, cambiò il tratto del suo disegno, passando dalle forme più tondeggianti e infantili ai volti affilati e alle figure innaturalmente allungate.

L’autrice stessa ha dichiarato di essersi ispirata ai tratti somatici di Björn Andrésen /Tadzio, rendendo più esplicita e profonda l’ambiguità del suo personaggio, che va oltre gli abiti maschili a copertura di un corpo femminile.

Inevitabilmente, l’idolo dallo sguardo triste e romantico, nel tempo è stato trasformato in un mito, ancora oggi celebrato da film, libri e mostre. E un documentario di Rai 3 racconta il viaggio di Luchino Visconti nell’Europa del nord est alla ricerca dell’interprete del suo Tadzio, viaggio che si conclude proprio con l’incontro con il bellissimo Björn.

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