Se una mattina ci svegliamo con il mal di testa sicuramente ci diciamo “che mal di testa stamattina”, forse è stato il vino che non era un granché o forse chissà. Se accusiamo un malessere addominale la prima cosa che pensiamo: “cosa ho mangiato ieri sera? Strano, eppure ho mangiato leggero, non saranno state mica le zucchine lesse?”. E così via. Quando ci capita di stare male, insomma, vogliamo subito individuarne la causa che generalmente cerchiamo nel cibo, nel freddo, nel caldo, nell’alcol, nella stanchezza, in qualche eccesso di attività fisica, nello stress e così via.

Abbiamo bisogno di sapere il perché della nostra indisposizione, ci deve essere una ragione. Abbiamo bisogno di sapere chi è stato il colpevole perché questo ci dà l’impressione che possiamo controllare meglio quella sgradevole situazione. E questo rappresenta un momento di debolezza emotiva, una condizione di vulnerabilità che facilita l’assorbimento acritico di risposte senza verifica alcuna, le fake news, che inevitabilmente indirizzano il pensiero e l’azione lungo percorsi incontrollati e mai ottimistici. 

Ma, quando ci svegliamo in buone condizioni, senza particolari dolori o malesseri, raramente ci viene da dire ad alta voce: ah come sto bene stamattina! Non ci mettiamo a pensare alla cena della sera precedente, tanto meno ad analizzare il menù consumato.

Questo differente atteggiamento fa sì che, alla fine, sottolineiamo e marchiamo più i giorni in cui stiamo male rispetto a quelli in cui stiamo bene. Contiamo con più attenzione quei giorni in cui non siamo in forma rispetto a quelli in cui siamo in totale benessere. E questo inevitabilmente fa pendere la bilancia dalla parte negativa con sicure ripercussioni sull’umore.

Non è raro parlare con persone che vengono a riferire di avere un problema da tre anni, ma se si chiede loro se il disturbo ce l’hanno da tre anni tutti i giorni ti dicono che no, ce l’hanno 1-2 volte al mese, confondendo il momento d’inizio dei sintomi con la sua durata. Questo è un classico esempio di come, nel raccontare la nostra storia, possano prevalere i fattori negativi rispetto ai positivi.

Avere un mal di pancia due volte al mese per qualche ora è sicuramente invalidante perché riduce la capacità di lavoro e di avere relazioni sociali. Se questo si ripete per un tempo prolungato non è raro costruire un ponte tra un episodio e l’altro, saltando i momenti di benessere intermedi e percependo il malessere con continuità. 

Con questo blog spero di contribuire a non far perdere la consapevolezza del benessere che deriva dalle false notizie e i luoghi comuni più diffusi sulla salute, quelli che creano quei dubbi e contraddizioni che, a volte, ci fanno vivere la nostra esistenza come una continuità offuscata. 

Sarà per il lavoro che faccio che mi fa stare a contatto tutti i giorni con la malattia e la sofferenza che riesco a dare più peso ai momenti di benessere. So che vuol dire NON avere un mal di schiena che ti limita anche nei tuoi movimenti più semplici come quello di allacciare le scarpe. So che vuol dire NON avvertire dolore da qualche parte che ti costringe a letto o ad assumere tanti farmaci. Per cui riesco ad apprezzare fortemente questi momenti di benessere non come una normalità dovuta, ma come segno di rispetto della mia vita.

Quanto vale il nostro benessere?

Il valore e l’importanza del benessere è una grande opportunità che non va sprecata, persa, mortificata da banali contingenze del nostro quotidiano. Non ci si può guastare una giornata per un parcheggio in seconda fila, il rumore che fanno i tuoi vicini del piano di sopra, per una partita di calcio persa dalla tua squadra del cuore, per una giornata di pioggia o di sole troppo intensa. Ma anche in presenza di un importante problema di salute. Questa cosa l’ho imparata molti anni fa.

Ero ancora studente e frequentavo le corsie della clinica medica nel reparto di gastroenterologia. All’epoca, le corsie erano di 12-14 letti e, a volte, anche più. C’era molta promiscuità, poca privacy, ma tanta solidarietà tra i pazienti. Ricordo di una ragazza di Siena, giovane, con una malattia che le aveva creato una condizione disastrosa su tutto il pavimento pelvico e questo escludeva completamente che in futuro lei potesse riprendere le sue normali funzioni relative a quella sede anatomica.

Noi studenti dopo la visita con il professore rimanevamo a completare le cartelle, fare le richieste di esami e altre attività collaterali mentre le degenti si alzavano, sistemavano il letto e facevano capannelli vicino ai letti di quelle un po’ meno fortunate che non potevano alzarsi. Commentavano la visita, si scambiavano due parole, discutevano di un lavoro a maglia e si facevano forza l’un l’altra.

Pur essendo quella che stava peggio di tutte, questa ragazza senese era quella che cercava di tirare su il morale di tutta la corsia. Con la sua cadenza toscana faceva il verso al professore appena uscito strappando un sorriso a tutti noi, scherzava con le pazienti musone per tirarle su, prendeva in giro le suore infermiere.

Noi sapevamo bene – ma lo sapeva anche lei – che era lei quella nelle peggiori condizioni, era lei che avrebbe dovuto affrontare, più di tutte, un futuro incerto e difficile. Ciononostante, non passava il tempo a piangersi addosso. A cosa sarebbe servito? Aveva perso alcune funzioni, perché doveva perdere anche l’umore e aggiungere sofferenza a sofferenza? Dopo più di quarant’anni ricordo ancora questo episodio perché mi ha insegnato come si possono affrontare le peggiori condizioni senza sbandare, senza perdere lo spirito, senza perdere sé stessi. 

Non so se quella ragazza fosse una seguace di  Siddhārta Guatama, se conoscesse la teoria della seconda freccia o avesse cognizioni di consapevolezza e di resilienza. Ma sapeva ben distinguere il dolore dalla sofferenza e valorizzare la ricchezza della propria vita.

Un classico del 1995 che spiega questo argomento meglio di quanto possa fare io è quello di Henepola Gunaratana, La pratica della consapevolezza in parole semplici: buona lettura!

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