Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto Edizioni volatili e redattore di Nazione indiana. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la Trilogia dei viandanti (2016-2020). Conoscerlo e conversarci è per la mia personale percezione disturbante nel senso più alto della definizione; Cornelio turba il suo lettore quasi quanto il suo interlocutore e, a tal proposito, il suo ultimo libro La specie storta è quasi una dichiarazione di intenti non solo letterari ma a mio avviso esistenziali.

Il tempo di lettura, la percezione del reale

“La specie storta” inganna il tempo di lettura. Lo dilata e lo comprime nei solchi di versi portando il lettore in un tempo altro di percezione del reale. In che tempo vive dunque Giorgiomaria Cornelio?
Fuori sincrono, in un tempo che non coincide. Detto altrimenti: mi piace pensare che uno dei
doni molteplici della poesia sia la consapevolezza che il tempo, con i suoi passati e suoi futuri, si
modifica continuamente, si riconfigura, non è dato una volta per tutte, ma emergere dalla relazione che inneschiamo con esso. Il tempo della poesia è il ricominciamento del tempo.

Hai definito il linguaggio comune “poliziesco”, senti che la tua scrittura poetica liberi il linguaggio da questa costrizione  linguistica ?
Talvolta lo libera, talvolta lo vincola nuovamente. Quale linguaggio chiede davvero assenso alle cose nominate? Certamente la poesia può corrompere i legami polizieschi tra le cose, quelli più abusati e pericolosi per via della loro presunta naturalità; è un esercizio fondamentale, perché incrinare gli automatismi ci permette di riaccendere l’avventura della percezione: “Amore: qui perdiamo il nome

 
Amore,
oggi l’incontro ci spatria
le ossa. Ci incurva
le giunture del difetto.
Tutta l’officina del corpo barluma.
Ruota e sciacqua,
con nuovo
diluvio universale.
 
«Perché ecco,
l’inverno è passato».
Perché qui perdiamo
                    il nome.
Giorgiomaria Cornelio

“La specie storta” è un manifesto

La tua Sodoma ha le sue mura fisiche della Valle Cascia, romperle e disperdere il tuo libero pensiero nell’etere poetico é il tuo obbiettivo con questa raccolta?
La mia Sodoma è una terra incarnata, è la memoria antenata, la crosta di dolore che portiamo dentro non come un debito, ma come un’occasione di confronto fecondo con quanto ci abita. È l’esercizio, sempre ecologico, di comprendere una volta per tutte che la con-vivenza avviene anche con i nostri passati, con ciò che abbiamo rimosso e abbiamo cercato di rimuovere o estinguere.
Siamo qui, ancora abbandonati, e per questo salvi.

Sia salvo l’ascolto.       Fatto vero.
Comincia un altro tribunale.
 
Niente che tenga tranne il nome,
e la revoca del nome.
 
Il ricordo  del cielo tracolla la terra. Diaspra è
la notizia che viene dai tronchi: ogni età serba
il suo traviamento.          E poi tarli, perdifiati,
spaccature, anelli con-
torti.
«Per negligenza. Solo per negligenza.»
 
Ma:
se la mosca devasta l’unguento,
pure bisogna bandirla? Se la casa è un pieno
di brecce,                nessuno vi troverà riparo?
 
Vedete: abbiamo           dentro una miseria già lunga,
una spinta che inferra il sangue,
un pezzo di scottatura
nel ricordo più giovane.
Siamo anche questo: l’avanzo sgrottato, l’orcia di
coccio o il panno con la cenere, l’impasto
di ogni attaccatura alla polvere,
la formula che spiega il mattone    quando ancora
manca un tetto.

Le mie conversazione poetiche continuano a stupirmi. Continua in me la sete che il confronto con voci poetiche così pure sa instillare nella mia voglia di sapere.

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