Gli investimenti transnazionali, ossia quando grandi imprese decidono di muovere i loro capitali per investirli in un altro Paese (creando nuovi stabilimenti, acquistando terreni, rilevando aziende, ecc.) sono molto importanti e utili e possono indubbiamente portare benefici ai cosiddetti Paesi ospitanti, ossia quelli in cui le imprese decidono di investire. Ma c’è un grosso Ma.
Infatti, ci sono anche degli inconvenienti. E non sono pochi o di lieve entità.

Da un lato abbiamo una serie di interessi privati, dall’altro una pluralità di interessi pubblici, tra cui spiccano – perché in potenziale conflitto tra loro – l’interesse ad attrarre gli investimenti e l’interesse a mantenere il controllo pubblico su quegli investimenti, onde evitare che questi pregiudichino in modo eccessivo altri interessi generali, come la salute, l’ambiente, le condizioni dei lavoratori.

Una possibile deriva critica di questa dialettica la ritroviamo nel cosiddetto fenomeno del land grabbing.

Questo riguarda una serie di compagnie che acquistano o concludono accordi di affitto di lungo termine avendo a oggetto grandi distese di terreno agricolo in Paesi in via di sviluppo.

Questa attività ha i suoi vantaggi: per gli investitori, che acquisiscono nuova terra, e per i Paesi riceventi, che attraggono capitale e quindi ricchezza che aiuta la crescita e aumenta i consumi e l’occupazione. Gli stati ospitanti ricevono i capitali degli investitori, che portano sviluppo, nuove tecnologie e crescita economica. Ma non sempre questi progetti hanno successo, di solito vanno meglio quando riescono a coinvolgere anche gli operatori locali e in Paesi che già hanno un buon tessuto industriale.

Inoltre bisogna capire come quei terreni vengono utilizzati. Perché un uso improprio può generare inquinamento, danni al paesaggio, impoverimento del suolo. Ecco perché serve sempre una regolazione pubblica.

Le operazioni commerciali appena descritte “hanno ad oggetto, nella maggior parte dei casi, terre di proprietà pubblica, che, a seguito di atti di disposizione temporanea o perpetua (compravendite, affitti o concessioni), vengono sottratte alle comunità che tradizionalmente le utilizzano, a vantaggio di persone fisiche o giuridiche straniere o di imprese pubbliche di altri Stati (…). Queste operazioni commerciali non sono finalizzate solo all’utilizzo delle terre oggetto degli atti di disposizione, ma, nella maggior parte dei casi, anche delle risorse naturali che si trovano al loro interno (come acque, foreste, miniere). L’obiettivo principale di questi investimenti è l’agricoltura, ma sono diffusi anche altri scopi, come l’utilizzo delle risorse naturali nella produzione industriale (ad esempio, nel caso delle foreste, per la produzione della carta o del legname) e di energia idroelettrica o la loro inclusione in progetti di sviluppo turistico” (F. Caporale, Land grabbing e diritto amministrativo. I diritti umani come rimedio all’accaparramento delle risorse naturali e il loro impatto sulle amministrazioni nazionali, in Munus, n. 3, 2018, pp. 850-851).

Questo fenomeno è rilevante anche e soprattutto sotto il profilo agro-alimentare, perché spesso sottrae risorse importanti ai Paesi ospitanti e perché, modificando la destinazione d’uso dei terreni utilizzati (che spesso servono per coltivare bio-carburanti, invece che cibi), riduce la produzione destinata al consumo alimentare, influendo sulla sicurezza e sulla sovranità alimentare del Paese ospitante.

A riguardo, occorre citare un altro fenomeno, tipico della globalizzazione, ossia il forum shopping: le grandi imprese multinazionali possono permettersi di scegliere da quale diritto farsi regolare, giacché molti Paesi inducono e incoraggiano gli investitori a portare i loro capitali nei loro territori, offrendo ampi spazi di terreno a ottimi prezzi, con vantaggi fiscali o garantendo un regime di regolazione molto generoso.

Questo fenomeno ha sollevato molte critiche perché il suolo, il terreno agricolo, è fondamentale in qualsiasi Paese. Anche se gli Stati ospitanti ricevono grosse somme e vantaggi nel breve periodo, i profitti di quei terreni vanno tutti all’estero. E spesso lo sfruttamento intensivo delle aree acquistate provoca inquinamento, perdita della biodiversità, danni al paesaggio e all’ecosistema, desertificazioni.

A tutto questo va aggiunta la riduzione delle tutele di alcuni interessi deboli, considerata un freno allo sviluppo degli investimenti, come le regolazioni a tutela di salute, ambiente, tutela dei lavoratori. C’è quindi un rischio di race to the bottom, di corsa verso il basso, che vuol dire peggioramento del sistema di regolazione dei vari Paesi, che entrano in competizione per accaparrarsi gli investimenti stranieri, facendo a gara a chi abbassa di più gli standard di tutela della qualità, della salute, dell’ambiente.

Così come sta avvenendo per altre politiche pubbliche di regolazione, anche la governance delle attività di investimento ha raggiunto una dimensione globale. Vi è cioè la necessità di stabilire regole comuni, uguali per tutti e di rilevanza mondiale. E queste regole devono porre limiti agli investimenti transnazionali: esigendo il rispetto dell’ambiente, della salute, delle condizioni dei lavoratori. In parte, una regolazione globale già esiste, ma essa tende a limitare soprattutto i regolatori pubblici nazionali: il bisogno di stabilire regole, di porre dei limiti e di proteggere gli investitori (per esempio dalle espropriazioni pubbliche) ha contribuito a incrementare in modo significativo le normative e le istituzioni extra-nazionali che si occupano di questi aspetti. Ma questa regolazione è, come detto, parziale, si occupa solo di una metà del problema.

Lì dove si ammette che una compagnia, un’impresa, faccia i suoi investimenti su scala mondiale, è fondamentale avere principi e regole comuni, che disciplinino tale attività: un’armonizzazione giuridica di questo settore, nel proteggere i cittadini mantenendo elevati gli standard di sicurezza e di qualità, aiuterebbe anche il movimento di capitali intorno al mondo, incoraggiando gli investitori privati a usare i loro soldi per creare crescita, purché in modo sostenibile.

Nell’individuare le regole comuni occorre ragionare sull’utilità dell’armonizzazione formale e procedurale: gli Stati nazionali mantengono un certo spazio di competenza per incidere sul contenuto delle loro misure di regolazione, ma in certe materie (ambiente, salute, tutela del lavoro) occorre determinare degli standard minimi sotto ai quali non è possibile scendere.

Al contempo, queste decisioni regolatorie devono seguire modelli simili, in modo da garantire uguaglianza formale, certezza del diritto, imparzialità. Ogni impresa che decide di investire in un Paese terzo sa che le norme che le saranno applicate rispetteranno determinati canoni sostanziali e formali. Quanto a questi ultimi si tratta della trasparenza, possibilità di partecipare all’iter decisionale, obbligo di motivazione della decisione finale, ecc.

Gli standard comuni di regolazione possono essere stabiliti in anticipo, magari perché inseriti in trattati, e devono ispirarsi a principi, diritti e garanzie fondamentali, che sono condivisi da tutti gli Stati. Universali, possiamo dire.

Il land grabbing è una pratica dannosa, su cui occorre intervenire. In una società globalizzata sembra però impossibile da abolire. Per questo andrebbe regolato: con misure uguali per tutti che innalzino il livello di tutela degli interessi più deboli, come la salute, l’ambiente, il diritto al cibo, le condizioni dei lavoratori.

Definizione, conseguenze e cause

Un caso di land-grabbing in Uganda

Qualche approfondimento

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