La filiera del cioccolato – come la rappresenta Etelle Higonnette, Senior Advisor di Mighty Earth – è come una clessidra: nella parte alta ci sono milioni di coltivatori che lavorano nelle piantagioni di cacao, nella parte bassa ci sono milioni di consumatori di cioccolato e nel mezzo, dove il canale di passaggio si restringe, pochissime, ricchissime e potentissime aziende (i cacao trader) che fanno da intermediari stabilendo prezzi all’ingrosso e al dettaglio e influenzando le scelte sulle condizioni di lavoro nelle piantagioni.

Questa emblematica metafora non basta a comprendere come funziona la produzione del cioccolato. Per questo vi consiglio un interessante docu-serie disponibile su Netflix: Rotten. In uno dei vari episodi della seconda stagione si parla di cacao, ma le tante ingiustizie e i numerosi casi di sfruttamento che vengono messi in luce per i gustosissimi semi con cui si fa il cioccolato, potrebbero valere (e di fatto è ciò che avviene realmente) anche per altri prodotti. Ossia, prezzi bassissimi all’approvvigionamento delle materie prime, condizioni di lavoro mortificanti (per esempio con l’impiego di bambini nelle piantagioni) e danni ambientali (deforestazione) a opera dei produttori, tutti situati in Paesi in via di sviluppo (per il cacao Africa occidentale e Sud America), grandi guadagni per le poche aziende che controllano e manovrano il mercato e prezzi bassi per i consumatori che non optano per prodotti fair trade. Questo meccanismo, purtroppo, vale, come detto, anche per gli anacardi, per l’olio di palma, per le banane, ecc.

Ma il caso del cacao è particolarmente emblematico

La filiera di produzione del cioccolato, infatti, ci racconta di come funziona il mercato agro-alimentare su scala mondiale per molte categorie di prodotti. Quella del cacao è basata sulla povertà del coltivatore: è lui che paga il prezzo del cioccolato a buon mercato. Perché le grandi e poche aziende che operano nel settore acquistano i semi di cacao dai coltivatori a prezzi bassissimi per poi rivenderli a prezzi molto più elevati, affinché siano lavorati e poi venduti come prodotti finali.

Il sistema descritto mette noi, consumatori del Nord del mondo, di fronte a un dilemma: è giusto ed etico continuare a comprare cioccolato a basso costo (una barretta di Lindt Excellence costa circa 2 euro, il suo competitor principale, la Novi, offre prezzi anche migliori) quando questo significa contribuire allo sfruttamento di migliaia di lavoratori e all’impoverimento di terre e foreste?

È un dubbio che molti di noi si sono posti in più occasioni. E per tanti non è un quesito di facile soluzione, se non dispongono dell’agiatezza economica per potersi permettere la scelta più giusta, che è anche – inevitabilmente – la più costosa.

E ci si potrebbe quindi chiedere: è giusto che tale responsabilità ricada sui consumatori e sulle nostre scelte etiche individuali?

Premesso che optare per il cioccolato fair trade, magari non sempre, magari bilanciando questo consumo critico con altri, è comunque una scelta positiva che ognuno di noi dovrebbe portare avanti, vorrei proporre una visione alternativa per immaginare una soluzione al problema.

Un primo aspetto critico riguarda il fatto che anche se il cioccolato finito costasse di più, sarebbero le aziende della distribuzione e i venditori al dettaglio a ottenere maggiori guadagni, non i coltivatori e i produttori originari. Perché il potere di controllo e gestione delle dinamiche di mercato in capo ai trader è tale per cui questi ultimi continuerebbero ad avere profitti molto elevati, senza doverli condividere con altri attori della filiera. Magari venderebbero meno cioccolato, ma di sicuro non pagherebbero di più i produttori.

L’intervento dei poteri pubblici

A fronte di ciò, quindi, la soluzione va ricercata altrove e precisamente nella regolazione pubblica. L’intervento dei poteri pubblici serve proprio a scongiurare tali effetti negativi delle attività economiche. Questi ultimi sono chiamati a mettere limiti, disporre controlli, correggere storture, rimediare alle cosiddette “market failures”, ossia le esternalità e le conseguenze negative prodotte da meccanismi di mercato che non sono in grado, senza un intervento esterno, di evitare inefficienze o ingiustizie.

Ma la regolazione pubblica non è una cosa semplice: ha dei costi elevati, risulta di difficile attuazione a livello extra-nazionale e limita le libertà. Parafrasando la famosa frase “è la stampa, bellezza!”, potremmo dire “è la regolazione, bellezza!”. Perché la regolazione crea degli scontenti, comprime dei diritti, produce cambiamenti dolorosi, ma ha anche dei vincitori, che – se chi regola lo fa in modo corretto e per il bene pubblico – sono i più deboli della società. Per questo – in tale settore, come in altri – occorrono accordi internazionali che fissino un prezzo minimo per l’acquisto delle materie prime (cosa che in verità già accade ma la soglia stabilita è ridicolmente bassa); servono regole ferree e garanzie per i lavoratori del cacao nei Paesi di origine e controlli severi affinché vengano rispettate; deve essere posta in essere una vigilanza su tutta la filiera e sul momento in cui si formano i prezzi; vi è bisogno di un’etichettatura esplicita e chiara che permetta al consumatore di capire come si è arrivati a quella barretta di cioccolato e perché costa così tanto o così poco.

Nell’analisi delle politiche pubbliche si indugia spesso sulla necessità di valutare e bilanciare vantaggi e inconvenienti derivanti da una scelta che propenda più o meno per misure interventiste, con una forte presenza del pubblico, o per misure ispirate dal lasseiz faire, ossia che si affidano a meccanismi di mercato. In questo tipo di studi si cerca sempre di tenere conto dei problemi sia del mercato (le market failures di cui abbiamo parlato), sia della regolazione (le cosiddette regulatory failures, ossia quando è la regolazione pubblica, o un suo ricorso in misura eccessiva a produrre esternalità o effetti negativi sulla popolazione).

La vicenda appena descritta conferma l’incapacità del mercato di autoregolarsi e la necessità dell’intervento pubblico: la regolazione non deve limitarsi a garantire il corretto funzionamento dei mercati, la libera concorrenza tra operatori e l’eguaglianza formale; i poteri pubblici sono infatti chiamati a un compito ulteriore, ossia svolgere un ruolo di guida, innovazione, correzione e direzione di mercati e attività commerciali. In tal modo la regolazione può produrre maggiore ricchezza, favorire investimenti, rivitalizzare settori di mercato che apparivano in crisi e quindi aiutare il mercato, nonché correggerlo ove questo comporta distorsioni e ingiustizie, come in molte filiere di prodotti alimentari.

Ciò comporta la necessità di pervenire a scelte pubbliche che siano circondate da una serie di garanzie: devono essere supportate da competenze scientifiche, devono essere orientate all’efficienza, devono risultare trasparenti, imparziali e il più possibile rappresentative. Ma – e questo non deve più sembrare una stranezza o uno scandalo, come è stato dagli anni Novanta a oggi – l’intervento pubblico dell’economia deve essere visto come una cosa normale, auspicabile, positiva.

Di qui, lo Stato e i poteri pubblici internazionali non possono essere meri arbitri che fanno rispettare le norme e rimangono estranei all’attività delle parti, né semplici custodi di un ordine basato sulla competizione tra operatori garantita da regole formali. Sono invece chiamati a intervenire nell’ambito economico, ad esempio governando il mercato in modo stabile e continuativo, orientando i prezzi, limitando la libertà economica, ecc., in tutti quei settori – e in special modo in quello agro-alimentare – in cui il mercato persegue scopi che spesso non coincidono con l’interesse generale.

A fronte di ciò, anche le scelte dei consumatori finali sarebbero più consapevoli, più informate e più giuste.

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