Mi piace immaginare che quando leggerete questo pezzo avrete l’illusione di sentire in sottofondo il ritmo incessante delle claquettes. Un suono costante, travolgente che vi evoca tempi lontani, proiettandovi su una comoda poltrona del Cotton Club. Cosa sono le claquettes? Per chi non lo sapesse sono le placchette metalliche applicate sotto le scarpe dei ballerini di tip tap. E se vi chiedessi cos’è il tip tap, quasi sicuramente, vi tornerebbero alla mente gli assoli della riccioluta Shirley Temple, le eleganti coreografie di Fred Astaire e Ginger Rogers, le piroette dell’affascinante Eleanor Powell o i passi sotto la pioggia di Gene Kelly.

L’immaginario collettivo riguardo questo ballo è stato forgiato da decenni di musical su grande e piccolo schermo: dagli storici film musicali del periodo d’oro degli anni trenta/quaranta come Cappello a Cilindro di Mark Sandrich, I Barkleys di Broadway di Charles Walters, Follie d’Inverno di George Stevens, Nata per danzare di Roy Del Ruth ai classici degli anni cinquanta come Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly, passando attraverso le rievocazioni degli anni ottanta di The Cotton Club di Francis Ford Coppola ed Il sole a Mezzanotte di Taylor Hackford, fino agli omaggi più recenti del film d’animazione Happy Feet di George Miller, The Artist di Michel Hazanavicius ed il campione d’incassi La la land di Damien Chazelle.

Se invece vi citassi Bill “Bojangles” Robinson probabilmente non tutti riuscirebbero a visualizzare un volto sconosciuto anche se comparso in molti film al fianco di Shirley Temple. E pensare che è stato un personaggio talmente importante per la storia americana (e non solo) che il giorno del suo compleanno, il 25 maggio, si celebra in suo onore l’International Tap Dance Day. Attore a Broadway, star all’ Hoofer’s Club di Harlem, artista di vaudeville e del Cotton Club in un periodo in cui i personaggi di colore venivano interpretati da attori bianchi con il viso truccato di nerofumo e labbra dipinte di rosso (il blackface che Robinson rifiutò per i suoi spettacoli). Negli anni venti fu un esponente della Harlem Renaissance, movimento artistico-culturale afroamericano sorto verso l’inizio degli anni venti negli Stati Uniti, in lotta contro la segregazione razziale.

Buona parte delle foto che ritraggono Bill Robinson lo vedono sorridente mentre balla (molto spesso su delle scale, uno dei suoi cavalli di battaglia), ma se ne ritrovano alcune che lo immortalano al fianco di Jesse Owens, l’atleta che alle Olimpiadi di Berlino 1936, nelle quali Hitler voleva celebrare la supremazia ariana, vinse ben quattro medaglie d’oro. Una di queste volle regalargliela in segno di gratitudine per averlo aiutato a trovare lavoro quando al ritorno in patria in un’America ancora fortemente segregazionista, dopo i trionfi berlinesi, le luci della ribalta si spensero fin troppo rapidamente su di lui.
Questo è solo uno degli esempi di come la storia di questo ballo e dei suoi protagonisti fosse strettamente correlata al contesto storico in cui è nato, si è sviluppato e si è fatto largo nella società del novecento: non solo un gesto artistico dunque ma anche un atto simbolicamente rivoluzionario e di lotta per il riconoscimento dei propri diritti.

La storia della tap dance (italianizzato in tip tap), purtroppo poco conosciuta nel nostro paese, è molto più complessa e lunga di quanto si pensi, e le sue radici affondano nel lontano XVII secolo e si intrecciano con la storia degli schiavi d’America.
Nel 1600, i servitori irlandesi furono importati nelle colonie per servire le famiglie britanniche e gli africani furono ridotti in schiavitù per lavorare nei Caraibi e nelle piantagioni della terraferma. Le loro condizioni erano spesso drammatiche, ma i loro spiriti erano irrefrenabili e la danza – una danza ritmata, cadenzata, libera – era un dono della loro eredità sopravvissuta. I loro balli non richiedevano musica, raramente avevano strumenti. La danza era anche musica, il suo suono era importante quanto il movimento nell’esprimere l’emozione e nel raccontare la storia e talvolta anche la rabbia della loro condizione (non c’è niente di più liberatorio quando si è arrabbiati che battere i piedi). Le origini del tap possono essere rintracciate fino alla metà del 1800, si configurano come un mix di musica e danze tribali africane, inglesi, scozzesi e irlandesi che hanno dato vita a molti nuovi generi, incluso questo stile di danza.

Il documentario A tuba to Cuba di T.G. Herrington e Danny Clinch è illuminante per la questione presa in esame: racconta, attraverso un’indagine approfondita della musica indigena, i natali del jazz di New Orleans, e delle forme di ballo che ruotavano attorno a quegli ambienti, celebrando il trionfo dello spirito umano espresso attraverso il linguaggio universale della musica e della danza.
Il tip tap, come lo conosciamo oggi, si presenta per la prima volta al grande pubblico durante i cosiddetti Minstrel Show (spettacoli itineranti). Un ballerino di origini africane di nome William Henry Lane, ribattezzato Major Juba alla fine del 1800 apparve, anche se con il blackface, al fianco di attori bianchi e ruppe la regola dell’industria dell’intrattenimento dell’epoca che fino a quel momento era esclusivamente a loro appannaggio. Il suo soprannome si riferiva a Juba, la capitale della Repubblica del Sud Sudan, ma era anche un termine per la danza degli schiavi praticata per comunicare usando i piedi come un tamburo tribale.

Il calpestio, i battiti dei piedi e delle mani sul corpo diventeranno i tratti distintivi del tap che prenderanno forma poco dopo in una combinazione sincopata chiamata Tap and Step dance, eseguito con zoccoli o scarpe con suole di legno che potevano fare da cassa di risonanza ed amplificare il suono.
A tal proposito Stewart F. Lane nel suo libro del 2015 Black Broadway, raccontando la storia degli afroamericani sul palco all’inizio del novecento, descrive perfettamente quanto fosse complicata. Si trattava di una parodia selvaggia che curiosamente attirava tutto il pubblico (sia il pubblico bianco che quello nero) e che paradossalmente ha offerto lavoro a molti attori di colore in un momento in cui il teatro, ma anche il cinema, era a loro precluso.
È indiscutibile infatti che i Minstrel Show fossero un esempio di un razzismo piuttosto radicato.
Se il Maestro Juba era responsabile della diffusione iniziale del tap, la vera accettazione di questa danza a livello mainstream arrivò poco dopo proprio grazie a Bill “Bojangles” Robinson (1878-1949).

Il ballo, e l’arte in generale, sono l’esito della fusione di culture, genti, musiche, tradizioni, ritmi e suoni. Sono il risultato di un’operazione additiva e non sottrattiva: approfondire, riscoprire e iniziare a guardare con una nuova modalità la storia del musical nonché iniziare a conoscere il valore del tip tap credo sia un atto di cambiamento culturale importante in un momento storico in cui purtroppo è ancora necessario manifestare per i diritti delle minoranze afroamericane al motto di Black Lives Matter.
Il cinema, in maniera più meno esplicita declinando tutti i generi, ha raccontato l’essere umano e le lotte che nei secoli ha dovuto compiere per far valere i suoi diritti. Molti registi, consapevoli dell’importanza di un medium privilegiato come quello cinematografico, l’hanno sfruttato per far entrare più agilmente nelle case (e vite) del pubblico argomenti delicati e spinosi.
Un esponente simbolo è sicuramente Spike Lee, regista da sempre impegnato nella lotta per i diritti delle minoranze afroamericane, che parlando di tip tap ha raccontato le difficoltà e i soprusi di oggi, utilizzando come metafora sociale quella del palcoscenico. E’ del 2000 Bamboozled film (purtroppo) attualissimo che narra la storia di Pierre Delacroix, uno sceneggiatore televisivo di colore che vuole sfondare. È il solo “nero” in uno studio tutto formato da bianchi e con un capo, Dunwitty, sotto pressione perché la rete (CNS) perde costantemente audience. A Delacroix viene allora un’idea per salvare il proprio posto e il network. Ispirandosi ai film e agli spettacoli di inizio novecento scrive uno show decisamente razzista con protagonisti dei ballerini di tip tap presi dalla strada che sarebbero andati in scena truccati. Lo show ottiene un immediato successo e Dunwitty è al settimo cielo, purtroppo però il finale non sarà a lieto fine come ci si potrebbe aspettare.
In un’intervista comparsa sul Washington post il 7 febbraio 2019 Spike Lee riferendosi alla storica pratica del blackface legata agli spettacoli delle origini dichiarò: “I don’t care when you did it. It was never cool. It’s a sickness” ricordando poi che solo nel 1969 dopo 75 anni l’Università del Vermount pose fine al tradizionale e offensivo spettacolo del Kake Walk (A-Walkin-Fo-De-Kake), uno show annuale in cui gli studenti ballavano per le strade con parrucche ricce e il viso dipinto di nero.

E’sintomatico dunque che il nostro bagaglio culturale cinematografico legato al musical e al tip tap sia composto perlopiù da ballerini bianchi, perlomeno fino agli anni ottanta, momento in cui Gregory Hines iniziò a riportare in auge non solo questa danza ma anche il genere incarnando una fetta di storia del ballo (e non solo) che fino a quel momento era stata trascurata o completamente dimenticata.
Spinto dal successo dell’attore statunitense nel 1978 George T. Nierenberg girò No Maps on My Taps (distribuito per la prima volta in Italia da Reading Bloom solo a partire da maggio di quest’anno), un atto d’amore nei confronti del tap e del jazz. Mosso dalla volontà di mettere in scena la storia completa di una tradizione che esplode negli anni ’20 nei teatri di Harlem, apre a una prospettiva diversa più rispettosa del gran peso che hanno avuto nella storia della musica, del ballo e della cultura in generale, le tradizioni africane.
Il regista ricostruisce le origini del tap dagli albori attraverso la storia di una popolo con una lunga tradizione musicale, un bagaglio di esperienze, un groove contagioso e una ritmica che contamineranno i vari ambiti musicali dal jazz al rap.
Lo fa riprendendo tre ballerini storici, mostri sacri della scena: Howard “Sandman” Sims, Chuck Green e Bunny Briggs. I tre si sfidano, si esibiscono, si emozionano ed emozionano lo spettatore che sembra diventare consapevole che forse si è perso un pezzo di storia di questo film bizzarro, esilarante, a tratti drammatico che è la vita reale.

La prossima volta che guarderete Lena Horne in Stormy Weather di Andrew L. Stone spero rimarrete colpiti anche dai passi di Cab Calloway e quando vi divertirete riguardando Shirley Temple ne Il piccolo colonnello diretto da David Butler riconoscerete e ammirerete anche lui, il Sig. Bill “Bojangles” Robinson e con orgoglio potrete dire di conoscerlo. E perché no, magari inizierete anche un corso di tip tap!

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