Non appena è arrivata la data del 27 marzo come possibile giorno di riapertura dei cinema – puntualmente bruciata dopo pochi giorni – c’è stato un levare di sacrosante critiche che ha offuscato la speranza di vedere riaperti i teatri e le sale. Bisogna partire da un concetto: una sala cinematografica non è un punto ristoro. Non è nemmeno un negozio di abbigliamento, e non è certamente una palestra. Queste attività, tra le più penalizzate dalla crisi sanitaria, hanno dalla loro parte una prospettiva di riapertura più semplice e più immediata, cosa che di certo non può essere applicata ad un cinema. Il perché è molto semplice: spettacoli cinematografici e teatrali hanno bisogno di una programmazione certa che viaggia almeno (almeno!) di trimestre in trimestre.

Una programmazione che deve essere legata ad una filiale complessa: ideazione, produzione, distribuzione. In mezzo, le campagne promozionali che – tra interviste e trailer – dovrebbero spingere il pubblico a scegliere questo e quest’altro film, dando loro una data CERTA di release. Va da sé che una riapertura dei cinema limitata alle sole zone bianche o gialle (fin quando ci sarà questo arcobaleno di suddivisioni…) e nei giorni feriali è infattibile nonché assurda. Pensate: come può una Major americana scegliere di mandare in sala un titolo forte, quando magari le sale sono aperte a Campobasso ma sono chiuse a Firenze? Già.

Il mondo del cinema non è autarchico ma è internazionale, e un mercato già debole come quello italiano non può permettersi di poter contare solo sulle produzioni nazionali. Bello, romantico, ma non è e non sarà mai così: i blockbuster, le enormi produzioni di Hollywood, dettano e detteranno legge. Sfidarle sarebbe un rischio stupido, arrogante e perso in partenza. E come può un’industria che si regge sul fatturato aprire solo dal lunedì al venerdì? Nel 2019, ultimo anno utile per i confronti, l’incidenza degli incassi ammontava al 50% nel sabato e nella domenica. Insomma, è come aprire un negozio di scarpe e poter vendere solo i lacci. Ciò per sottolineare quanto nel mondo dell’entertainment ci sia bisogno di programmare con certezza, sfidando i paradossi: restare ancora chiusi è più saggio di riaprire in questo modo scellerato.

Così non potevano che esserci mugugni e rabbia da parte degli esercenti, che per l’ennesima volta sono stati danneggiati e beffati da chi dovrebbe capire le loro posizioni, mentre tutto il comparto audiovisivo fa fatica a reggersi in piedi, complice un abuso dello streaming che nell’ultimo anno ha aiutato ma anche deprezzato la domanda. Al netto di ciò, la riapertura dei cinema e dei teatri (che sono luoghi sicuri, sicurissimi) deve essere accompagnata da una campagna pubblicitaria, da informative ufficiali che possano spingere il pubblico a risedersi sulle poltroncine rosse. Non si può lasciare al caso e, cosa più importante, non si può aprire per poi richiudere. Insomma, bisogna essere stabili e lasciar da parte l’emotività se si vuole davvero salvare il settore.

Intanto, mentre l’Europa annaspa sotto una montagna di burocrazia e incongruenza, i dati di Box Office Mojo che arrivano dai mercati asiatici e statunitensi fanno ben sperare: in Cina il rilancio di Avatar (!) ha fatto incassare ben 21milioni di dollari, e a febbraio l’uscita di Detective Chinatown 3 ha fatto il botto: 330milioni di euro, un record. In USA, come detto, le cose vanno abbastanza bene: Raya and the Last Dragon in USA ha racimolato fin ora 16milioni, destinati ad alzarsi visto che sono state riaperte le sale più forti, ovvero quelle di Los Angeles e di New York City.

Due città pesantemente colpite dalla crisi ma, data la lungimiranza e il pragmatismo della politica americana (e sì, pure della campagna vaccinale), eccole nuovamente in rampa di lancio. Ah, senza dimenticare che il 25 aprile a Los Angeles c’è la notte degli Oscar, organizzata dall’Academy rigorosamente in presenza. Ad oggi, in Italia, degli otto titoli candidati come miglior film, ne sono arrivati solo tre, e tutti e tre in digital grazie a Netflix o Amazon: Mank, Sound of Metal e The Trial of the Chicago 7. Ecco, l’avrete ormai capito: oltre all’ingente danno economico si rischia di creare – in Europa e in Italia – un buco culturale insanabile. E per la culla del Rinascimento questa sarebbe la vergogna più grande.

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