Sono circa 70 i muri su 195 nazioni del mondo. Quasi un terzo dei Paesi, negli ultimi 50 anni, ha costruito una barriera per separarsi da qualcosa o da qualcuno. Secondo lo studio pubblicato nel 2020 dal Transnational Institute, l’istituto internazionale di ricerca e advocacy impegnato a costruire un mondo giusto, democratico e sostenibile, almeno 6 persone su 10 vivono in un Paese con un muro che separa.

Mappa dei muri costruiti tra il 1968 e il 2018

Il rapporto esamina l’espansione dei muri costruiti da un numero crescente di Stati, le ragioni alla base del delinearsi di un apartheid globale e le società che cercano di trarne profitto. Oltre a fornire una panoramica globale dei muri di confine, il rapporto approfondisce poi sette casi studio.

Il muro tra Israele e Cisgiordania

Il tema della sicurezza ha da sempre contraddistinto il forte dibattito anche sulla costruzione del muro di separazione tra Israele e Cisgiordania lungo tutto il confine. Da quando nel giugno del 2002 la knesset, il parlamento di Israele, votò il progetto di costruzione di una grande muraglia moderna che separasse la Cisgiordania dall’interno, l’obiettivo ufficiale è garantire la sicurezza fisica degli israeliani che vivono a ovest della recinzione.

Gli israeliani lo definiscono “chiusura di sicurezza”, i palestinesi “muro della vergogna”, in totale più di 700 km.

L’argomento della sicurezza, ormai è diventato un fattore anacronistico per spiegare la costruzione del muro, se pensiamo che in realtà viaggiando attraverso i vari check point di confine ci si può subito rendere conto che il muro non è mai stato completato ed è presente solo nel 10% del territorio.

Subito quest’ultima caratteristica mi è apparsa palese il giorno del mio ritorno, percorrendo il tragitto in autobus che porta da Gerusalemme a Ramallah. Appena uscito dalla città vecchia, nei pressi della Porta di Damasco, sono salito sul bus per Ramallah, che è il numero 231, il cui biglietto costa 7.60 shekel (poco meno di 2 euro) e la durata del viaggio è di circa 30/40 minuti.

Alcuni settori significativi della frontiera tra la Cisgiordania e il territorio israeliano continuano a non essere presidiati e spesso sono tracciati da un semplice reticolato di filo spinato che, comunque, contribuisce a rendere difficile la vita dei palestinesi, costretti ad allungare i propri tragitti da due a cinque volte di più.

Appena arrivato in territorio palestinese, però, il paesaggio è mutato completamente e davanti ai miei occhi sono apparse lunghe strade con numerosi posti di blocco e torrette di cemento su cui ci sono militari in posizione di tiro, con i mitra sempre puntati verso le vie di accesso.

Lungo il tragitto verso Ramallah, si alternano i villaggi palestinesi, con il divieto di accesso agli israeliani e, contrapposte, ci sono le colline conquistate dagli israeliani, con le bandiere israeliane piantate nei sassi e il divieto d’accesso ai palestinesi.

È lungo le strade dove più si percepisce quanti pochi dettagli si hanno di questo conflitto. Qui, infatti, la prevalente componente di estrema destra alimenta giorno dopo giorno un conflitto impari e arbitrario, che negli anni ha accresciuto un odio ingiustificato tra due popoli che in passato hanno pacificamente convissuto, come testimoniano la ricchezza fiorente di una cultura passata.

Dal 1948, il disatteso riconoscimento dei confini, ha reso la convivenza in queste terre sempre più complicata, in balia di un fragile equilibrio e sempre pronta ad esplodere.

Lascio il Paese ponendomi la domanda che tutto il mondo si chiede: ci potrà mai essere la pace in questi territori?

Prima di questo mio viaggio tra Israele e Palestina, ero fiducioso che si potessero trovare accordi, anche se lunghi e difficili. Dopo aver vissuto e visto ciò che accade realmente, credo che senza una forte presa di posizione dei Paesi di tutto il mondo civile per promuovere la convivenza e riportare il rispetto degli accordi, non si riuscirà fino in fondo a sradicare l’odio e l’ingiustizia che impregna ogni gesto della quotidianità

Condividi: