Sistema moda e sistema beauty potrebbero rappresentare degli ottimi strumenti per guidare la società verso modelli maggiormente inclusivi a causa dei profondi legami che intrattengono con la questione dell’espressione di genere e dell’autorealizzazione, gender expression e self-actualization.

Come ci racconta la studiosa di moda Susan B. Kaiser, la moda è cultura visiva e, come ogni fenomeno culturale, è tutta una questione di incroci, intersezioni e convergenze.

La Kaiser insegna Design, Gender, Sexuality, and Women’s Studies, Textiles and Clothing, ed è membro dei Cultural Studies Graduate Groups presso la University of California, Davis. 

Autrice di The Social Psychology of Clothing: Symbolic Appearances in Context, nel suo ultimo libro Fashion and Cultural Studies edito da A&C Black nel 2012, fa dialogare studi culturali e studi di moda su argomenti eterogenei, solo apparentemente slegati tra loro quali i soggetti moda (nazionali, transnazionali e intersezionali), le etnie e i movimenti di riarticolazione razziale, le questioni di classe, età, genere e sesso.

In sintesi per capire in che società viviamo e dove stiamo andando abbiamo bisogno di questo concetto di intersezionalità.

Abbiamo bisogno di modelli multipli, di applicare una lente intersezionale alla moda per pensare ai come e i perché del vestire i corpi. Ne abbiamo bisogno perché la moda non è soltanto un affare da donne bianche, occidentali, eterosessuali e appartenenti alla medio-alta borghesia.

Applicare una lente intersezionale, interdisciplinare come quella della Kaiser, significa evidenziare i molteplici intrecci tra genere, etnia, identità nazionale, classe sociale, sessualità e altri aspetti delle nostre identità e ci può aiutare a iniziare a comprendere il fenomeno moda nella sua affascinante complessità e apprezzare proprio il suo potenziale nel dar significato e forma alle diversità.

Ma dove si colloca in tutto ciò il sistema moda soprattutto a livello di comunicazione?

Apparentemente il concetto di diversity e quello di inclusivity sembrano dominare il sistema moda e il suo modo di comunicarsi all’esterno.

Come si legge nel manifesto della diversità e dell’inclusione di CNMI la volontà del sistema moda è quella di avere un approccio nuovo alla diversità e all’inclusione che

“implica il riconoscimento e il rispetto di esperienza di vita diverse  dalla nostra e la denuncia di tutte le discriminazioni sociali che avallino il privilegio per alcuni e lo svantaggio per altri.”

Ancora si afferma “la diversità è un asset” e avere un team multiculturale porta dei vantaggi. Allo stesso tempo in questa dichiarazione di intenti si legge la volontà di operare “un’evoluzione culturale degli standard di bellezza”.

La diversità nel sistema moda ha finora significato a livello comunicativo la proposta di una rappresentazione di realtà eterogenee e diversificate e l’introduzione di realtà non convenzionali ovvero che non rispecchiassero quei classici cliché che hanno caratterizzato lo standard nella rappresentazione moda.

Tra generi, etnie, corpi diversi e pratiche di rappresentazioni non conformi la moda sembra cercare la propria formula di inclusività, soprattutto si cerca di evitare la formula della scatoletta e di adottare e comunicare un concetto di bellezza  più variegato, relativo e non normativo.

In particolare la rivisitazione del concetto di bellezza, corporeità e genere avviene attraverso le rappresentazioni di corpi non conformi al classico standard etero, bianco e magro taglia 38. Alcuni esempi di comunicazione moda in linea con il concetto di diversità  sono  le cover Ageless come quelle di Judi Dench di British Vogue, giugno 2020, e Jane Fonda sulla copertina di Harper’s Bazaar, Aprile 2021.

British Vogue, June 2020
Harper’s Bazaar, April 2021.

Poi troviamo le cover Gender fluid 

Indya Moore, attivista transgender, Vogue Spagna, novembre 2020.

Valentina Sampaio prima modella transgender per Vogue Paris, Marzo 2017.

Vogue España, Noviembre 2020
Vogue Paris, Mars 2017
Vogue USA, January 2021

Per finire troviamo le cover con modelle plus size, numerose quelle di Ashley Graham, e recente la cover Paloma Elsesser,  per Vogue America gennaio 2020.

La domanda sorge però spontanea, diversità uguale inclusività?

Il problema che incontriamo con il concetto di diversità e inclusività nel sistema moda è che molto spesso la diversità rimane soltanto in superficie.

La diversità è una mera Mise-en-scène, una strategia comunicativa che cerca di convincere che il brand stia agendo in supporto di una specifica minoranza o in supporto di identità non conformi.

Il punto è che dietro le quinte, in realtà, la mission comunicativa non trova applicazione pratica né a livello di prodotto moda né a livello di organizzazione dirigenziale. Possiamo definire questa come finta inclusività o inclusività a metà.

Questo è quanto sostenuto dall’autorevole testata statunitense del New York Times in un articolo pubblicato lo scorso marzo 2021. Ad un anno dal Black Lives Matter la testata ha inviato  lo stesso identico questionario a 64 grandi marchi femminili di prêt-à-porter europei e statunitensi, oltre che a 15 e-commerce e media influenti del settore.

La risposta è stata insoddisfacente. A questionario ricevuto solo pochi marchi americani hanno tentato di completarlo per intero, mentre sedici lo hanno riempito a metà.

Un approccio alla diversità concreto reale e impegnato non significa assumere e rappresentare superficialmente la diversità ma significa dare alla diversità la possibilità e la responsabilità di influenzare e direzionare il sistema moda, significa ascoltare chi questa diversità la vive sulla propria pelle tutti i giorni.

Inclusività va dunque oltre la semplice rappresentazione della diversità sulle passerelle e le cover del magazine.

Come affermato dalla top model Naomi Campbell durante il suo intervento al convegno Techlive 2019 del Wall Street Journal

“la diversità deve andare più in profondità vogliamo vederla all’interno delle aziende stesse, negli uffici”.

Bisogna dare a questa prospettiva un posto al tavolo per consigliare e far parte dei progetti, dobbiamo mettere la diversità dietro la scrivania

Questo è ciò di cui le aziende del sistema moda hanno bisogno secondo la Campbell.  

Sicuramente questa inclusività di superficie ha causato non pochi problemi e scandali mediatici a causa di rappresentazioni stereotipate create evidentemente da uno staff poco sensibile a queste tematiche, vedi Dolce & Gabbana con la loro campagna nel 2018 che ritrae in modo razzista, stereotipato e sessista una modella cinese che tenta di mangiare pizza e cannoli con le bacchette.

Come si legge sempre nel già citato manifesto della diversità e dell’inclusione di CNMI fare dell’inclusività un elemento fondante di un’azienda porterebbe sicuramente a sviluppare un brand in direzioni più etiche diversificate e  inclusive.

Oltre a rendere la diversità parte componente dei sistemi decisionali e di produzione dei sistemi moda bisogna far sì che quei messaggi e posizioni inclusive che vengono promosse sulle passerelle e nelle campagne pubblicitarie siano anche poi fruibili dal punto di vista del mercato, a livello di prodotto.

 Considerando le varie categorie dello spettro intersezionale per quanto riguarda il genere un esempio molto interessante è il brand italiano Gucci.

Da  quando Alessandro Michele ha debuttato con la sua prima collezione da direttore creativo per la stagione di Fall Winter 2015 non ha mai smesso di promuovere un’idea gender fluid del brand e questo approccio è stato tradotto dal punto di vista del rapporto col consumatore in una sezione dedicata sull’eshop del brand denominata Mx.

Sul sito leggiamo

“Le collezioni di Gucci si propongono di decostruire i dualismi preconcetti e mettere in discussione come questi concetti si riflettono sui nostri corpi. Esaltazione dell’espressione di sé in nome dell’uguaglianza di genere, la Maison presenta MX”.

Un altra spinta verso l’inclusività ci viene al di là dei brand del fashion system dai fashion studies.

Negli ultimi anni si sono sviluppate anche realtà accademiche che stanno promuovendo corsi più inclusivi come ad esempio il FCAD Centre for Fashion Diversity & Social Change della Ryerson university Toronto Canada.

Altra realtà The Fashion and Race Database fondato nel 2017 dalla professoressa Kimberly Jenkins, una piattaforma on-line che mira a decentralizzare lo studio della moda tramite strumenti che espandono la narrazione della storia della moda e sfidano le rappresentazioni errate all’interno del sistema moda.

In conclusione la strada verso l’inclusività è ancora lunga ma le iniziative anche da parte di prosumer (consumatori-produttori del sistema moda) non mancano. Si vede un po’ di luce alla fine del tunnel.

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