Il bisturi incide la carne rivelando strati di tonalità rosa morbido, velocemente irrorate dal sangue. Il chirurgo tampona il taglio e pulisce il piede per l’impianto. Una pinza inserisce un sensore sotto la pelle, lo accomoda tra i tessuti. Il chirurgo richiude l’incisione e pone i punti di sutura. Guardando l’ago e il filo si sente di un secolo più antico. Passa al secondo piede e poi oltre. Ogni taglio un sensore, come semi nel suolo di un orto. Il chirurgo apre e chiude, annodando con precisione. Finito il lavoro, stranito, torna a casa.

Mesi dopo, quei piedi cyborg si muovono su un palco facendone scricchiolare le assi di legno. Il pubblico osserva Moon Ribas agitarsi senza musica e poi fermarsi, tremolare con gli occhi socchiusi e poi rimbalzare contro il suolo e acquietarsi. È la coreografia di un terremoto: i sensori nei suoi arti, collegati online a rilevatori sismici globali, le mettono in corpo gli smottamenti del pianeta e anche del suo satellite Luna, dal primo grado della scala Richter in su. Di terremoti e lunamoti Ribas si fa articolazione visibile: rende presente la latenza delle forze più che umane che macinano in sottofondo incessantemente. Non dorme più, i circuiti informatici che l’hanno legata mani e piedi a Terra e Luna macinano anch’essi incessanti nella seconda scena del suo cervello senza pace, cervello di pianeta.

La sensazione che ho avuto osservando Ribas lasciarsi danzare da forze soggiacenti l’ho avuta almeno altre tre volte di cui ho ricordi netti.
L’ho avuta guidando di notte su un percorso di montagna quando ho incontrato una civetta ferma sulla strada, che ha spalancato gli occhi di fronte ai miei fari che le andavano addosso e ha torto il collo verso il basso per guardarmi bene in faccia attraverso i vetri.
L’ho avuta nella Death Valley quando cercando il cactus a spina bianca che vive sotto i livelli del mare ho perso di vista il resto, e una volta trovato il cactus ho scoperto che mi aveva sconfitto anche senza farmi nulla, perché essere con lui per me significava non sapere più dov’ero io.
E l’ho avuta una terza volta quando l’insonnia decennale che avevo narcisisticamente vissuto e narrato come un’epopea è stata spenta di colpo, in una stanza di un palazzo rispettabile, dalla prescrizione medica di una blanda pillola contro l’iperattività cognitiva.

La sensazione che ho avuto era d’incontrare forze e strutture di base che semplicemente sono quello che sono e lavorano come lavorano, impersonali, insensibili, neutrali come meccanismi, solitamente non viste. Come tirando lateralmente la corda centrale di una chitarra classica appare la penombra interna della cassa di risonanza e della sua configurazione materiale, in quei casi ho avuto la sensazione di vedere il silenzio delle cose e di sentirne il rumore sordo sotto la pelle. Mi è successo anche guardando Moon Ribas esser danzata via dai terremoti come una marionetta, ed è una sensazione sinistra.

Nel suo Psicologia del perturbante (1906), lo psichiatra Ernst Jentsch descrisse il senso di straniamento che si prova osservando una persona che soffre un attacco di epilessia come un realizzar confuso che ciò che eravamo usi esperire e approcciare come un tutto psicologico, coerente ed integrato – una persona – è in realtà il sito di accordature e schemi di funzionamento soggiacenti, meccanicamente neutrali, che seguono una dinamica loro propria e nulla hanno a che fare né con la personalità della persona né con le nostre convinzioni, abitudini e aspettative riguardo le persone. L’esperienza ha un che di demoniaco, l’epilettico ci pare posseduto perché ne emerge un sostrato che non è più lui, ma che solo è. Ciò che ci perturba è allora una estrapolazione intuitiva, confusa, che latenti, oltre gli strati di familiarità che quotidianamente abitiamo, macinino forze anteriori e ulteriori, basilari e pervasive ma in ultima istanza non comprese o gestibili, e che possono in ogni momento rendere presente la loro latenza incontrollabile facendoci girare gli occhi al contrario – come i demoni del sonno nel pensiero magico lucano.      

Moon Ribas si è lasciata danzare da forze telluriche per sette anni prima di rimuovere i sensori dai suoi arti. Oggi non è più un pianeta, ma percepisce vibrazioni fantasma che le ingannano il sistema nervoso – un debito forse inestinguibile accumulato impersonando rumori spaziali. Una menade cyborg che non provoca invidia ma gratitudine.

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