L’1 marzo alle 17, BigMama sarà ospite del nostro format ReWriters Game-changer a cura di Eugenia Romanelli. I ReWriters Game-changer sono le persone che, una ogni mese, vengono elettə come attorə di cambiamento, changemaker secondo i valori del nostro Manifesto. E’ possibile seguire gratuitamente il live iscrivendosi qui.

Dichiaro sempre di non guardare la televisione. In parte è vero, Raiplay mi sta un pochino complicando la vita però. Intendo dire che non ho l’antenna e quindi di fatto non posso guardare la tv ma ho il televisore e una connessione internet e quindi alla fine ho la possibilità di vedere tutto: dirette, differite. Potrei passare la mia vita davanti allo schermo piatto del mio Samsung che affermo sempre, con la solita saccenteria da intellettuale, ho comprato solo per guardare i film.

Sanremo come plurivocità di stimoli: la chiacchiera

Va beh, al di là delle ultime confessioni malconce di un’anima ormai venduta alla kermesse più cool italiana, Sanremo, posso dire che ci sono state molte cose di cui avrei avuto voglia di parlare circa questa fantasmagorica esperienza sanremese.

Prima cosa a cui ho pensato: la militarizzazione dello Stato italiano. Non c’è stata sera in cui non si sia visto sfilare un carabiniere. Assetto da guerra o da mobilitazione totale direbbe Ernst Jünger; eppure, non siamo ancora in guerra, oppure siamo in una guerra silente e costante. Terza opzione: siamo assediati da un governo di destra? (A voi l’ardua sentenza).

Seconda cosa: i cani poliziotto condotti con il collare a strangolo. Ovviamente strumento che aborro, tuttavia la cosa che maggiormente mi ha colpita non è stato l’utilizzo dello strumento – la maggior parte della cinofilia contemporanea è rimasta inorridita per la presenza dello strozzo – quanto piuttosto che nessuno si sia reso conto dello stato emozionale di quei soggetti canini. L’ansia che li pervadeva, parlo in particolare dei grigioni: era così evidente e palpabile da offendere l’anima anche della più insensibile delle scimmie nude. Eppure, Ama – posso chiamarlo anche io così? Che dite? – ha sottolineato più di una volta quanto fossero belli questi cani.

Ma basta, basta serietà! Quello di cui volevo parlare in realtà è sempre stata una sola cosa: ma quanto seducenti erano le cantanti in gara?

Parto da Emma (sguaiata e poetica assieme) Alessandra Amoroso (eterea ed irraggiungibile) Annalisa (con le autoreggenti, stupenda!) Loredana Berté (io neppure a dieci anni avevo quelle gambe) Fiorella Mannoia (affascinante e bellissima: sembra che il tempo si sia dimenticato di lei) e, dimentico qualcuno, sì, forse sì, BigMama.

BigMama: l’incursione del reale

Io non la conoscevo prima BigMama (al secolo Marianna Mammone). Mai vista, giuro. Non sono in grado di ripercorrere in maniera sensata la sua storia se non rinviandovi a una sgualcita biografia su Wikipedia, ma BigMama ha cambiato volto al mio festival. Che bomba su quel palco e che parole e che canzone.

BigMama, con il suo corpo, la sua canzone La rabbia non ti basta, con la sua presenza mi ha di colpo rigettata nel reale. Se anestetizzata dalla realtà catodica in cui la donna è laccetti, lustrini, pancia piatta e figaggine smisurata (in cui ovviamente sono caduta e sono stata catturata dalla sua invadente presa) BigMama è stata il reale che si è fatto avanti. BigMama è stata l’incursione del reale nel mondo dei sogni: per essere vivi bisogna essere svegli! Quindi: svegliati Manu!

Jean-Paul Sartre parla di questa grande differenza nel suo romanzo La nausea. La realtà è quel principio di omologazione a cui siamo tutti così intimamente affezionati, è quell’oblio generalizzato per cui la vita avrebbe un senso, è la dimenticanza del nulla su cui l’esistenza si regge. Diversamente il reale emerge come nausea quando si realizza che è tutto una grande, immensa, iperbolica, ipertrofica finzione.

Eppure, noi in quel teatrino di niente ci passiamo la vita, ed è quel niente che rende sopportabile il nulla. La vita non ha senso di per sé stessa. Il processo di soggettivizzazione, prendersi carico della vita, è accettare la mostruosità della sua insensatezza basale e cercare di darle comunque una forma. BigMama è quel nonostante attraverso cui il reale sfonda la realtà. È la nausea che lievemente si fa avanti per parlarci di un anti-eroe e per rompere quel preformismo a cui ogni vita, ogni competizione, è votata.

La performatività della bellezza. Ma che cosa è il bello?

Mi ritrovo a leggere alcune considerazioni di filosofi anche di successo – senza fare nomi Regazzoni (ho amato anche io molto alcuni dei suoi testi) – in cui le derive performative sulla corporeità da lui esposte mi paiono come un atto di bullismo sconcertante nei confronti di una buona parte della società.

Regazzoni trasforma la cura per il corpo, l’essere un corpo, nell’obbligo di appartenere a certi canoni performativi che il reale ci impone. Certo il Ginnasio era anche una palestra, come lui ben ricorda nel suo testo La palestra di Platone; tuttavia, si è ben lontani dalla saggezza, a cui dovrebbe aspirare la filosofia, quando si verticalizza il concetto di corporeità e lo si ripropone, ancora una volta, come raggiungimento di un ideale estetico apollineo di forma priva di contenuto.

La forma come ricorda molto bene Benjamin, ne Il dramma barocco tedesco, è responsabile del contenuto e non vi è forma che non entri in costellazione con il linguaggio in parte segreto, in parte esplicitato, del suo modo di espressione. Ogni corpo è quindi cultore di un segreto, ogni imperfezione è sintomo di ciò che siamo, ogni difetto preserva da quel principio di uniformità che ci trasforma in macchine perfette adibite a un ruolo prestabilito. Non a caso Recalcati ci insegna, attraverso il magistero di Lacan, che quando si ama qualcuno si ama il suo sintomo (Mantieni il bacio).

Consolare la nostra bambina

Io non ho un corpo perfetto, né da un punto di vista estetico né performativo, ho dovuto imparare a difendermi, a fare del nonostante il mio pane quotidiano. Non l’ho scelto. Non mi sono imbottita ingordamente di merendine (come penserebbe Regazzoni), né sono stata a poltrire con ignavia sul divano: semplicemente non appartenevo ai canoni. Non ero Emma, Annalisa, non ero Alessandra Amoroso, non Loredana Berté nè tanto meno Fiorella Mannoia; ero Marianna Mammone (BigMama).

E la ringrazio per il suo testo, per le sue parole semplici ma non popolari:

Se potessi andare indietro ti darei una casa vera in cui dormire

(…)

Se ti perdi segui me

Parole bellissime: io sono dovuta arrivare a quaranta anni per riuscire a consolare la mia bambina, consolarla da ciò che lei era, ma soprattutto da chi, semplicemente perché più forte – occupando nella scala sociale un ruolo di dominio – la irrideva.  

Forse non ho fatto neppure tutta da sola: ricordo quanto orgoglio provavo per la bellezza del mio pastore tedesco, di cui io brillavo di luce riflessa. Sono riuscita a farlo perché una donna bellissima mi ama e mi ha sposata, l’ho fatto perché ancora una volta risplendo di luce riflessa.

Ecco la costellazione, ecco la profondità della filosofia che, a volte a noi filosofi è sconosciuta: loro, belle del loro splendore placido e diretto, hanno raccolto le membra strambe del mio corpo per esaltarne la sua bizzarra bellezza giacché bello non è ciò che sta solo in superficie, ma una contatto profondo ed intimo tra l’interno e l’esterno. Bello è la storia che un corpo si porta addosso. Bello è arte che riporta e riconsegna al reale. Bello è il corpo di BigMama quanto figo è quello di Emma Marrone. Però, sì, ammetto, la fragilità della filosofia è proprio questa: dire cose sagge ma non vivere saggiamente. Io per prima sono vittima del conformismo di immagini imposte come belle.

Essere colpevoli di ciò che si è: la vergogna

Tuttavia vorrei tornare al testo della canzone di BigMama giacché un altro passo merita di essere pensato:

Lo sai che a casa non devon sapere, cosa dovrai dire

Una figlia che perde chi le vuole avere

Queste parole esplicitano non solo l’umiliazione che si subisce, ma la vergogna che si prova nell’essere umiliati, come se i colpevoli non fossero fuori, ma fossimo noi per primi, noi da dentro.

E sarà perché anche queste parole me le sento addosso. Per noi strambi è così: io sentivo il disagio che, semplicemente con la mia presenza, arrecavo ai miei genitori perché ero una bambina stramba: il loro imbarazzo mi scorreva addosso piano, lentamente e lacerava il tessuto della mia pelle fino ad infrangermi dentro. Volevo scomparire. Volevo non esistere. Non essere mai nata.

E allora, come raccontare a casa che tu, proprio tu, eri la sfigata? Che eri tu quella di cui ridevano, quella che prendevano di mira, quella a cui mettevano l’Attak sulla seggiola o le puntine da disegno?

Una figlia che perde chi la vuole avere? Questa è una domanda che per me, ancora oggi, non ha una risposta.

Ci vogliono anni per fare pace con queste cose. Forse non basta neppure dirle, raccontarle. Se sei il reale che sconvolge la realtà, se la missione nella tua vita è un messaggio di imperfezione, se quello che il tuo corpo deve svelare è la disabilità di fondo dell’esistenza, il suo essere nulla di fronte al niente. Allora come fai?

Puoi solo dire la verità. E la verità non piace a nessuno, neppure ai filosofi.

Condividi: