Come dobbiamo interpretare le novità di ogni inizio scolastico, al di là di tutte le dichiarazioni di facciata?

C’è un bel libro illustrato per ragazzi che racconta il rientro in classe degli adolescenti. S’intitola proprio La scuola ed è opera dell’artista tedesca Britta Teckentrup che in questo modo

“ci fa rivivere il microcosmo della scuola, le emozioni, le ansie e le paure degli studenti, offrendoci spunti di riflessione per discutere e affrontare insieme domande e temi sociali importanti per la crescita di ognuno di noi”.

Il volume non è solo una raccolta di illustrazioni ma un libro vero che mette in luce le potenzialità e le contraddizioni del sistema istruzione, attraverso il punto di vista di una studentessa della scuola secondaria di primo grado. Nella sua scuola le attività si svolgono come sono sempre andate ma non con un’inclinazione all’inesorabile: al contrario, si può e si deve intervenire per migliorare le cose che non vanno, e nel raccontarcelo questo albo si colloca dalla parte dei ragazzi e delle ragazze, e non degli insegnanti o delle materie di studio.

Le novità nel nuovo anno scolastico

Tuttavia, mentre durante l’estate si parla tanto su quella che dovrebbe essere la scuola al settembre venturo, poi le novità che incontriamo alla ripresa delle lezioni non sono mai così importanti né tanto meno incisive per i nostri ragazzi. Come se tanto dibattere abbia prodotto solo chiacchiere e poca sostanza.

Anzi, a mio giudizio, spesso le novità che come tali ci ritroviamo a settembre possono avere un senso solo se abbinate sapientemente alle lezioni del passato. Come a dire che la corsa sfrenata verso il futuro o a formare una next generation può essere proficua e responsabile solo a patto che non ci si dimentichi dei principi fondamentali che sono alla base dell’istruzione.

Dunque, tornare a ciò che è “vecchio” può essere ancora utile e formativo.

Tra le pratiche del passato che non bisogna dimenticare, ce ne sono alcune che sembrano quasi essere passate di moda mentre si sorvola, ahimè, su nuove consuetudini e nuovi costumi che sono tutt’altro che educativi.

Didattica e competenze, il corsivo,
la punteggiatura

Mi riferisco in particolare alla didattica e ad alcune competenze che si riscontrano sempre più carenti nei nostri ragazzi: quella di saper scrivere in corsivo, quella di saper usare la punteggiatura, oppure quella di imparare a memoria qualche testo, meglio se poetico.

La mia non vuole apparire come una suggestione deamicisiana ma come la semplice e sempre più diffusa constatazione di ciò che si presenta ogni anno in gran parte delle nostre classi, con una ricorrenza trasversale che difficilmente può essere confutata.

Questo non vuol dire demonizzare gli smartphone o rigettare l’Intelligenza Artificiale, non implica contrastare l’affermazione di una nuova generazione di ragazzi sempre più digitali o tornare a una pedagogia del secolo scorso, tanto per fare alcuni esempi, ma significa puntellare certe capacità che oggi stanno venendo meno con un indice esponenziale al ribasso che non può non destare preoccupazioni.

Invece ci siamo ritrovati a dibattere quasi esclusivamente di sentimenti di appartenenza patriottica e di promozione della cultura d’impresa da un lato, dall’altro di ius scholae e di insegnamento della lingua italiana ai non italofoni.

Se per un verso, dunque, queste prese di posizione, al di là dei loro rispettivi contenuti, si addicono ai cambiamenti della società e a certe evoluzioni che sono irreversibili (come la multietnicità, ad esempio) e che come tali si presentano nella veste di novità, nondimeno io credo che sia giusto ritornare alle basi della scuola stessa o, per usare una metafora sportiva, non dimenticare mai di allenarsi sui “fondamentali”.

Scuola: i “fondamentali”

Tra questi fondamentali, poi, ce ne sono alcuni di carattere spirituale che dovrebbero presentarsi inamovibili e invece non lo sono: ad esempio, bisognerebbe tornare a praticare assieme, docenti e allievi, una cultura dell’etica che renda l’esercizio della funzione pubblica il più trasparente e inappuntabile possibile: il non uso dei telefonini in classe da parte dei ragazzi ma anche dei docenti, uno spirito del lavoro condiviso e non solo scaricato sugli allievi intesi come semplici ricettori del sapere calato dall’alto, il rispetto delle regole basilari della puntualità oraria e della parola data, l’ascolto dell’opinione altrui e altro ancora.

Basterebbe richiamarsi, per esempio, alla filosofia degli Stoici (Zenone, Seneca, Marco Aurelio) che si basava per l’appunto su una nozione di etica riassumibile nella seguente massima:

“Vivi secondo natura”.

Tuttavia, poiché gli Stoici intendevano per natura sia il mondo che ci circonda sia la natura dell’uomo e dato che la natura, a loro giudizio, coincideva di fatto con la razionalità, allora la regola stoica di vita equivaleva a:

“Vivi secondo ragione”.

Proprio Zenone di Cizio, padre dello stoicismo e vissuto tra IV e III secolo a. C., definì come obiettivo prioritario il vivere in accordo con la natura, e dunque il vivere secondo virtù, perché la natura ci guida alla virtù.

Non è questa, pertanto, una “pratica del passato” da non dimenticare mai?

Credo invece, proprio parlando dell’insegnamento tramandatoci dai grandi maestri dell’antichità, che il depotenziamento dell’insegnamento curricolare della filosofia abbia contribuito a questa deriva culturale e morale ormai sempre più capillare tra i nostri banchi e tra le nostre cattedre.

Dunque, è con questa accezione che io intendo tornare al vecchio, non certo come sinonimo di passatismo o di presunta nostalgia dell’antico, ma come una forma di passo indietro da compiere per spiccare un salto più lungo.

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