Tra i fattori che caratterizzano la contemporaneità vi è la capacità di creare complessità in ogni ambito della vita, privata e pubblica, al cospetto di una generale spinta alla semplificazione, alla scomposizione, affinché si riduca al minimo il tentativo di comprensione e forse di classificazione – parliamo del film Mary Poppins – del tutto.

Le categorie valoriali costruite nel corso del secolo scorso dimostrano la loro fragilità e talvolta insensatezza rispetto a fenomeni emergenti, a bisogni inediti, a scenari inimmaginabili fino a poco tempo fa. Eppure, nonostante tutto, illudersi che il presente sia comprensibile solo spazzando via tutto quello che si è generato nel passato è fallace e crea storture interpretative foriere, talvolta, di grossolani equivoci.

In questo scenario anche le agenzie educative si sono trasformate: alcune hanno perso la loro centralità, la famiglia e la scuola, altre si sono espanse senza confini o regole, i social, altre sono sopravvissute alle perenni e incessanti trasformazioni, la televisione il cinema, pur con affanno.

Il tema dei diritti, della loro titolarità e della loro legittimità, occupa ancora un rilevante spazio nel dibattito pubblico benché emerga un approccio spesso approssimativo capace di generare una traslazione tra i diritti e il loro opposto, i doveri, con una sovrapposizione dei piani che diviene dannosa laddove si scivoli nel campo dei valori fondamentali. Una di queste anomalie si rinviene nella testarda volontà di imporre un paradigma culturale capace di leggere e di interpretare tutta la storia dell’umanità sulla base della presunzione che i veri valori siano solo quelli attuali.

“Mary Poppins”, un’altra vittima della cancel culture

Su questa convinzione affonda le radici l’ondata di revisionismo storico altrimenti chiamata cancel culture. Il passato, dunque, non è più un patrimonio identitario dal quale trarre insegnamento e dal quale semmai discostarsi per attualizzare conquiste fondamentali, come per esempio nell’ambito del corpo normativo che interessa lo statuto giuridico delle donne, ma come insieme di fatti da truccare o riscrivere perché incompatibili con il sistema di regole e di convinzioni che oggi riteniamo irrinunciabili.

La cancel culture in questo senso non è solo una revisione della storia, ma la sua negazione tout court, non è in grado di parlare al presente. Un modo, piuttosto aggressivo, per annullare le differenze di epoche, di pensieri, di ideali, di diversità in nome di un modello unico che proprio perché attuale diviene indiscutibile: un modello da replicare in ogni epoca passata e semmai futura. È in nome della cancel culture che si fonda la volontà-imposizione di revisionare alcuni film destinati all’infanzia, tra cui i grandi classici Disney,  e che ha imposto di rivedere non solo le modalità di visione, ma anche la fascia d’età a cui questi capolavori è bene siano destinati: da film per bambini a film per adulti. 

Uno dei recenti casi è quello di Mary Poppins, il capolavoro di Julie Andrews, che, nel Regno Unito, è stato spostato dalla fascia U, universal, a quella PG, parental guidance, classificandosi come titolo la cui visione è consigliata ai minori accompagnati da adulti.

La decisione, presa dal British Board of Film Classification (BBFC), l’ente pubblico preposto a classificare i titoli audiovisivi secondo le regole della censura, è stata dettata dall’utilizzo nel film Mary Poppins della parola hottentots in riferimento agli spazzacamini, termine arcaico e offensivo, bandito definitivamente in Sudafrica.

Il film incita alla discriminazione razziale, pertanto è da bandire. 

Fa eco alla sorte toccata a Mary Poppins, l’altra decisione di eliminare dalla sezione Disney+ dedicata ai più piccoli, le pellicole storiche Peter Pan, Dumbo e Gli Aristogatti, in quanto responsabili della diffusione di stereotipi dannosi e contrari al sistema valoriale attuale.

Anche qui, i film sono stati spostati nella sezione per adulti. 

Il passato non può essere cancellato

La questione è delicata, perché se è vero che per rendere effettivi i diritti è necessario abbattere gli stereotipi, è altrettanto vero che il passato non può essere cancellato con un colpo di spugna e senza contestualizzazione di quei fatti frutto di una società che non c’è più, ma a quella appartenenti.

Ammettere solo ciò che passa al vaglio del politically correct non sembra la strada maestra per immettere nel sistema educativo i valori che costruiscono una identità e dunque una società, in grado di allontanare ogni forma di discriminazione e destinata a sviluppare inclusione in nome della diversità. È come voler cancellare il tempo. Proprio il nostro passato, quello dell’umanità con i suoi simboli e valori, ci serve come termine di paragone per non consentire più la violazione di diritti fondamentali perché quel modello non è più in grado – non lo era neppure allora, ma non ce n’era la consapevolezza –  di costruire una comunità di eguali nelle differenze.

Oggi siamo quello che non vogliamo più essere, con una capacità critica di discernimento che permette di tenere nel passato ciò che non ha più spazio nel presente, senza però attuare una cancellazione scriteriata, ridicola talvolta, di ciò che ci è appartenuto e che ci ha permesso di evolverci. L’identità di una civiltà non si è mai costruita negando sé stessa, ma partendo proprio da sé, con una scansione non confusa delle fasi che caratterizzano ogni epoca storica. 

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