English translation below

Sono andato recentemente a Tonga, che è prossima alla linea del cambiamento della data. Ovvero, in buon italiano, in culx al mondo, espressione che nella sua brutalità può esprimere la lontananza estrema  – ancora qualche ora di aereo a oriente della Nuova Zelanda – ma che può ingannare.

Perché a Nuku’alofa, la capitale dell’isola, c’è una monarchia solida con il suo palazzo reale sul mare, il piccolo ma ben provvisto museo nazionale, l’immancabile mercato, privo, tuttavia, di turisti perché a Nuku ‘alofa, i turisti non vanno. Vi si trova perfino addirittura un albergo dal nome italiano che al suo interno ha una sorprendente – costà nel mezzo del Pacifico – copia del soffitto di Mantegna per la Camera degli Sposi di Mantova.

Tonga, dodici ore di fuso orario dall’Italia

Eppure la lontananza la si sente, e non solo per le dodici ore di fuso orario, ma anche perché Tonga illustra una variante del viaggio che ha regole proprie: lo spostarsi, tanto in arrivo che in partenza, per una passione sportiva, che qui ha un unico nome – Sua Maestà il Rugby.

A Tonga il rugby è una questione di identità, di tifo intenso, di pratica di quasi tutti i giovani, ma anche, ed è quello che ci interessa qui, di un passaporto, quasi l’unico documento di viaggio, per girare il mondo.

Infatti, quali altri italiani vengono in visita a Tonga? Chi altri se non gli azzurri del pallone ovale, che lo scorso luglio qui sono arrivati e hanno vinto per 36-15 contro la fiera nazionale locale. Partita mica facile ma cruciale per l’Italia, che nelle precedenti tappe pacifiche – Figi, Cook e Samoa – aveva rimediato tre sconfitte. E per quali ragioni può capitare di imbatterci più facilmente in qualcuno che da Tonga (che in tutto fa circa centomila abitanti) venga in Europa? Probabilmente, solo per la coppa del mondo di rugby, come l’ultima edizione disputata l’anno scorso in Francia.

Sua Maestà il rugby

Per capire quanto uno sport come il rugby sia una variabile cruciale non solo nelle ragioni del viaggio – si veda anche quanto scrissi sui tifosi in trasferta ma ancora di più nello spezzare l’isolamento di chi sta agli antipodi, c’è un libro che è un condensato di storia della Nuova Zelanda, che è Il libro della gloria di Lloyd Jones, il quale, citando la succinta ed efficace presentazione dell’editore si legge come una poesia, o come un romanzo di avventure, o come un libro di viaggio, o come un saggio sulla globalizzazione, o come uno studio sulle società geograficamente periferiche:

“Agosto 1905. Ventisette ragazzi timidi e coraggiosi salgono su una nave ad Auckland, in Nuova Zelanda, e da qui navigano alla volta dell’Inghilterra. Sono i mitici «Original» All Blacks. A loro appartiene un preciso destino: diventare una leggenda del rugby e conquistare il mondo.”

Idem a Tonga, dove la maglietta di rugby è l’unico souvenir che si porta a casa volentieri per il cognato ex giocatore, allo stadio ci si entusiasma per una partita, e gli unici cartelloni parlano, guarda caso, di un solo sport.

Perché in alcuni luoghi, il rugby, e altrove qualche altra palla o mazza o pista (come il bob della Giamaica) non è solo pratica sportiva, passione, identità, ma è la preziosa occasione, moltiplicata per importanza per la perifericità di questa isola, di uscire dalla propria lontana casa, di ricevere un ospite che altrimenti non sarebbe mai venuto, di incontrare l’altro, in altre  parole per essere conosciuti e riconosciuti nel mondo.

ENGLISH VERSION

When passport and a travel book are an oval ball

Traveling, in Tonga, rhymes with rugby

I recently went to Tonga, which is close to the change-date line. In good Italian we could say that Tonga is “in culo al mondo”, an expression that in its brutality can illustrate an extreme remoteness – still a few hours by plane east of New Zealand. Yet, in Nuku’alofa, the capital of the island, there is a solid monarchy with its royal palace on the sea, the small but well-stocked national museum, the inevitable market, without tourists, however, because in Nuku ‘alofa, tourists do not go. There is even a hotel with an Italian name that inside has a surprising – here in the middle of the Pacific – copy of Mantegna’s ceiling for the Camera degli Sposi in Mantua.

And yet the distance is felt, and not only because of the twelve hours of time difference, but also because Tonga illustrates a variant of travel that has its own rules: moving, both on arrival and departure, is mainly connected with a sporting passion, which here has only one name – His Majesty Rugby.

In Tonga, rugby is a question of identity, of intense support, of practice by almost all young people, but also, and this is what interests us here, of a passport, almost the only travel document, to travel the world.

In fact, which other Italians come to visit Tonga? Who else if not the Azzurri of the oval ball, who last July came here and won 36-15 against the local national fair. Not an easy match but crucial for Italy, which in the previous Pacific stages – Fiji, Cook and Samoa – had suffered three defeats. And for what reasons is it more likely that we run into someone who comes to Europe from Tonga (which in total has about one hundred thousand inhabitants)? Probably, only for the Rugby World Cup, like the 2023 edition played in France. To understand how a sport like rugby is a crucial variable not only in the reasons for travel – see also what I wrote about away fans but even more in breaking the isolation of those who are at the antipodes, there is a book that is a condensation of the history of New Zealand, which is The Book of Glory by Lloyd Jones, which, quoting the publisher’s succinct and effective presentation, can be read like a poem, or an adventure novel, or a travel book, or an essay on globalization, or like a study on geographically peripheral societies: “August 1905. Twenty-seven shy and courageous boys board a ship in Auckland, New Zealand, and from there sail towards England. They are the legendary “Original” All Blacks. They have a precise destiny: to become a rugby legend and conquer the world.”

It is the same in Tonga, where a rugby shirt is the only souvenir you are willing to take home for your brother-in-law who is a former player, where at the stadium you get excited about a match, and where the only billboards, coincidentally, talk about just one sport.

Because in some places, rugby, and elsewhere some other ball or bat or track (like the Jamaican bobsleigh) is not just a sporting practice, a passion, an identity, but it is the precious opportunity, multiplied in importance by the world periphery of this island, to leave one’s distant home, to receive a guest who otherwise would never have come, to meet the other, to be known and recognized in the world.

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