Terra è abitata dalle entità più diverse. Alcune hanno radici tra le rocce, altre fluttuano nei mari, altre sono portate dai venti, altre corrono nei sottosuoli, altre ancora abitano i paesaggi fisici o digitali, e altre abitano le nostre immaginazioni e il nostro spirito. Tutte attive allo stesso tempo e continuamente, anche quando non viste, come animali nella notte, entrano più o meno in contatto fra loro, fanno più o meno rumore, esplorano o si ritirano, si sovrastano l’un l’altra, si eliminano, si ibridano o si lasciano il passo. Tra esse, noi umani; e poi virus, cani, intelligenze artificiali, uccelli, cactus, e divinità – tra le altre cose.

In tempi che consideriamo normali, noi umani ci consideriamo protagonisti. Normale protagonismo umano su un pianeta altamente umanizzato, tenuto assieme da oleodotti, gasdotti, griglie elettriche, rotte aeree, autostrade, rotaie, fasci di fibre ottiche e connessioni satellitari. Il pianeta nostro. Il mio, dove faccio tutto ciò che conta per me e per chi conta per me. Accordi, progetti, rapporti, riunioni. Il pianeta nostro, dove il suono delle nostre attività ed infrastrutture sovrasta i suoni di tutto il resto, e le altre entità ci sono utili oppure indifferenti.

Un virus però – qualche milionesimo di millimetro di non umano – blocca tutto: produzioni, consumi, transazioni, inaugurazioni, celebrazioni. Anestetico totale ma senza l’agevolazione del sonno. Ne segue uno stupore diffuso, silenzioso, silenziato. Nello stupore sento suoni diversi; allargando gli occhi re-individuo i contorni di quella costellazione di entità altre da me, da noi, di cui il virus senza coscienza si è fatto portavoce.

Nello stupore le cose appaiono rovesciate. Si sentono i suoni degli uccelli. La primavera è impietosamente luminosa, e non è per nulla silenziosa come nel mondo affogato dal DDT descritto da Rachel Carson nel libro-alba della coscienza ambientale. Uccelli di città: i merli, i gabbiani, i corvi, e questi incredibili sciami di pappagalli di cui si parla troppo poco.
Dal balcone vedo il passeggio di cani e padroni. Non è chiaro chi sia chi. Quegli umani non potrebbero circolare se non fosse per quei cani. In senso stretto sono dunque i cani a portare a passeggio gli umani. Lo fanno felicemente, e a volte stancamente, come facevano gli umani prima che la direzione della riconoscenza si invertisse.

Mi chiedo se le cure che necessitano le mie piante grasse, stazionate in una serra a dieci minuti da qui, siano da considerarsi altrettanto necessarie che quelle che necessitano i cani-padroni che osservo dal balcone. Mi chiedo cosa ne direbbe l’autorità preposta, nell’eventualità di un controllo.
Armato di sofismi e rivendicazioni possibili, una volta la settimana esco da casa e raggiungo la serra. Dentro trovo piante ingrossate dalla luce, bruchi e lumache ingrossati dalle piante, e le prime vespe.
Un cabaret pluricellulare di tessuti vivi, all’interno del quale i confini fra l’una e l’altra entità non sono netti. Mi dedico a prestar le necessarie cure. Voglio portare ordine. Ma non ho la sensazione di essere indispensabile. Le cure che presto, sono necessarie soprattutto a me. Guardo quelle piante grasse, che più che crescere si consolidano, che sono lente e frugali e strutturate per l’attesa. Annoto frasi su cosa esse possano insegnarci, la saggezza del cactus e via dicendo.

E poi il più che umano. Le intelligenze artificiali che modellano il comportamento del virus, che tracciano i miei spostamenti, che incrociano miliardi di dati e simulano miliardi di mix molecolari tra miliardi di farmaci, mix speriamo un giorno utili a noi, gli umani, che le intelligenze artificiali le confezioniamo. Ad esse io ora mi affido, pur capendoci poco o nulla. Non capendone la struttura né i limiti mi affido anche ad Internet, e con me il mondo intero. Se Internet va giù, resteremo intrappolati in questa realtà fisica bloccata, questa palla di vetro silenziata in cui ora comanda il non umano.

Prego, stranamente, che per tutta questa bella primavera il più che umano Internet regga la tempesta migratoria di milioni di umani in fuga dal non umano virus. E su Internet vedo immagini di preghiere, sperdute in piazze vuote, rivolte al sovraumano che agita la tempesta.
Se qualcosa stride, non sono sicuro cosa sia. Direi debba essere ciò da cui riesco a distogliere l’attenzione con più difficoltà, ovvero gli umani stenti agghiaccianti e le anime perse. Isolato dagli altri, e come gli altri, me ne preoccupo. Ma il tessuto totale di relazioni, mi accorgo, quello che include ma esonda ben oltre i confini dell’umano, non subisce strappi ma riequilibrio di pesi, e sempre temporaneo. Il meglio o peggio, quella è una preoccupazione nostra. Conta, ma si agita dentro un amalgama totale che invece non è nostro ed è al tempo stesso sinistro, stupendo e indifferente. E dunque non so se qualcosa davvero strida, o meno.
Nello stupore le cose appaiono rovesciate, le relazioni tra umani, non umani, più che umani appaiono invertite come in una vignetta di Gary Larson. Terra, ancora un po’ febbricitante, incontra Marte. Marte dice: “Visto? Sta già passando. Ti avevo detto che questo Homo sapiens non è poi la fine del mondo”.

L’immagine di copertina è di Pieter Di Paola

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