Chi ha vissuto a Vienna potrebbe aver conosciuto una particolare variante di solitudine invernale, solida, leggera e vezzosa come una serra in vetro e ferro battuto, il cui ritmo è placidamente accelerato dal fatto che all’interno della giornata, in città, si pianta un senso di notte già dall’ora di pranzo. Tra gli effetti di questa placida accelerazione c’è quello di stimolare la sensazione che qualcosa stia andando sprecato. Pur presentandosi ogni giorno, tale sensazione è acuta, profonda e fulminea, una sferzata più che una litania. In tal modo pungolati, una volta che gli occhi si abituano ci si muove lesti e ci si apre a persone sconosciute come un insetto si apre all’esperienza del bosco.

In tale inconsapevole stato di coscienza si trova compagnia facilmente. Nel dicembre del 2016 vengo invitato, da una regista che sta girando un documentario sulla fine dei sogni dal titolo Sovietopia, alla prima di un documentario sul commercio dell’avorio dal titolo The Ivory Game. Per raggiungere il cinema devo attraversare un rigagnolo d’acqua artificiale, che credo insista su una ulteriore deviazione artificiale estratta dal Danubio per uso urbano. La mia ospite ha un ciuffo di capelli verde scuro e un viso addolcito dal talco, e conosce tutti. Io non capisco il tedesco ma le luci del cinema sono calde e gravitando loro intorno percepisco distintamente l’entusiasmo individuale dei presenti per esser riusciti ad evitare, stasera, di star soli a Vienna d’inverno, e anche io non sto nella pelle e ringrazio tutti per la splendida ospitalità.

Si spengono le luci e inizia la proiezione. Un pezzo di avorio costa un sacco di soldi al consumatore finale, ed è un bene puramente posizionale: a motivarne la domanda è la ricerca di una qualche validazione sociale da parte del compratore. A parte questo l’avorio non serve a nulla, e qualsiasi oggetto si realizzi con esso si può realizzare con altri materiali. La tessitura del suo commercio, però, è globale, sofisticata e spietata. Ad essa si oppone l’attivismo d’assalto, devoto ed ambizioso rappresentato nel documentario.

La sorgente prima dell’infrastruttura intercontinentale dell’avorio è il sangue dei pochi elefanti oggi rimasti nella parte inferiore del continente africano, dove a differenza di Vienna gli spazi sono enormi ed è impossibile controllare chi vive e chi muore. Gli spazi del documentario sono la Tanzania, il Kenya e lo Zambia – lì le zanne degli elefanti vengono sradicate dalle facce degli animali uccisi – e poi il Vietnam, la Cina e Hong Kong, dove, impregnate di morte e di mazzette, e finemente trasformate, le zanne finiscono sulle tavole, o nelle cassaforti, in forma di coppiere e posate. Negli ultimi 100 anni le popolazioni di elefanti africani sono diminuite del 97%, e la metà di quelli che restano è a rischio di morte violenta nel breve termine (dieci anni ai ritmi attuali).

Il cattivo della storia è Shetani, un bracconiere che ha ucciso da solo più di 10.000 animali e comanda una falange di disperati senza partito che inseguono gli elefanti in motocicletta e li assassinano, consegnandone poi le zanne arrossate ad altri disperati che le custodiscono e poi le consegnano a Shetani e via via su per la catena di approvvigionamento, dentro i container e fino ai quartieri eleganti del Nord e dell’Oriente. Nel documentario Shetani viene infine catturato, e nei nostri sedili viennesi caldi, ma che hanno progressivamente rivelato la loro scomodità strutturale, ci chiediamo indignati come possa, questo Shetani, fare cose del genere.

The Ivory Game è una produzione originale Netflix, quindi sarà facile per tutti scatenare già stasera quella stessa indignazione e condividerla, convertendola contestualmente in dati personali da donare alla Piattaforma. Per vedere il documentario su Netflix servono segnali satellitari. E’ il 2021 adesso, e io sono a Roma, nell’Interzona del Covid, e mentre il virus si espande nei corpi e nelle anime delle persone, sopra di noi orbitano centinaia di satelliti per donare al pianeta vita digitale, brandizzata o statalizzata che sia. Molti di questi satelliti sono già pattumiera spaziale ancora senza netturbini, mentre nuove Costellazioni sono in costruzione, la Starlink la più glamour, per garantire bande larghe per tutti su Terra, e forse in futuro dei bungalow extraterrestri, e nuovi quartieri spaziali per ricchissimi hipsters che si siano infine lasciati le piaghe di questo mondo alle spalle.

Fatto sta che le ultime speranze degli elefanti africani a oggi sopravvissuti alla Domanda Globale sembrano risiedere proprio in quei satelliti. Un progetto capitanato dall’Università di Oxford sta testando l’uso del monitoraggio spaziale per conteggiare e controllare gli elefanti africani rimasti. Le immagini catturate dallo spazio (da un’altezza di circa 600 chilometri dalla superficie terrestre) sono poi scansionate da un Network Neurale Convoluzionale, una intelligenza artificiale che si auto-addestra e che può riconoscere la forma dei pachidermi con una accuratezza al momento pari a quella dell’occhio umano, e in futuro inevitabilmente maggiore. A regime, questa nuova capacità tecnica permetterebbe il setacciamento di circa 5.000 chilometri quadrati di habitat al giorno, senza porre rischi per umani o non-umani, e permettendo anche la visura di aree prima inaccessibili. 

Seduto sul divano a Roma, con tutta l’empatia che un umano seduto su un divano può avere per degli elefanti che non ha mai visto, raccomando il loro bene futuro a tutti i miei dèi. Penso sia notevole che si siano mobilitati occhi ed intelligenze più che umane per poter guardare le cose dall’alto e tentare di proteggere il non umano dalle umane voglie straordinariamente vane. E che sia notevole che la regia del bene ci sfugga e debba innalzarsi fuori dal nostro mondo rifugiandosi in menti altre, estirpata dalle nostre come le zanne da un elefante morto.

Condividi: