Sono ormai cinque anni che mi occupo come attivista di disturbi alimentari. Cinque anni in cui ho raccolto testimonianze, ascoltato storie, elargito consigli. Quando ci si sente più o meno legittimamente esperti in una materia, è facile cadere nella convinzione di avere in tasca tutte le soluzioni. Chiaramente, quasi mai è così.

Ieri mattina, mio figlio più piccolo ha avanzato quasi tutta la colazione. Quasi senza pensarci, l’ho apostrofato: “Devi mangiare di più a colazione! Già sei magrissimo, come fai a reggere tutta la giornata se non mangi abbastanza?”. Lui mi ha guardata con noncuranza e, dall’alto dei suoi quasi sette anni mi ha risposto: “Ma a me piace essere magrissimo.”

Questa frase, buttata lì mentre andava in bagno a lavarsi i denti, ha avuto su di me l’effetto di una colata di cemento. Mi ha pietrificata. Improvvisamente, non sapevo più cosa dire. Cosa poteva aver instillato in un bimbetto, per giunta maschio, di quell’età, un tale autocompiacimento rispetto al proprio corpo magro?

Come era potuto accadere in una casa in cui si presta così tanta attenzione a non glorificare mai il chilo in meno, a non legare il valore di una persona all’estetica, a non celebrare la magrezza?

Ho buttato lì un “a te dovrebbe piacere essere sano, non essere magro” ma già mentre lo dicevo mi sentivo un’ipocrita. Conosco molto bene il brivido dei pantaloni che cadono, delle camicie immense su un corpicino esile. Lo conosco perché mi sono ammalata di anoressia nervosa quando non ero nemmeno un’adolescente.

Ricordo come fosse ieri quel senso di onnipotenza legato alla leggerezza, quel sentirmi finalmente elegante e non più goffa e impacciata come quando ero normopeso. Ora so che era tutto nella mia mente, che la mia andatura era rimasta identica, che mi muovevo comunque in modo dinoccolato e buffo, saltellando a ogni passo ma da magra tutto mi sembrava meglio.

L’industria alimentare e l’obesità

Dalla malattia sono faticosamente uscita, ma mentirei se dicessi che il canto delle sirene del numero che scende sulla bilancia è per me indifferente. D’altronde, per chi lo è? L’industria della dieta, quella che con le sue inserzioni martellanti, ci ricorda ogni istante che la felicità è lì, a un centimetro dal nostro girovita, fattura 175 miliardi di dollari ogni anno.

Nonostante lo stallo economico, lei non accenna a perdere colpi, cresce sempre più florida e si stima che raggiungerà i 283 miliardi di fatturato entro il 2028.

Questo significa ancora più prodotti per la perdita di peso, ancora più pubblicità e ancora più bambini esposti sempre prima al mito della magrezza.

Come è possibile allora che l’obesità infantile cresca a dismisura, tanto che l’Italia presenta la percentuale più elevata (il 42%) di bambini in sovrappeso o obesi nella fascia d’età 5-9 anni?

Bisogna parlare del rapporto
tra alimentazione ed emozioni

Eppure, negli anni passati sono stati tantissimi i progetti nelle scuole sulla sana alimentazione. Eppure non si fa che parlare di dieta, di dimagrire, di cibo sano. Certo, se ne parla sempre e solo in termini di macronutrienti, calorie, cibi buoni e cibi cattivi e mai o quasi del rapporto che c’è tra cibo ed emozioni. L’aspetto psicologico ed emozionale viene messo da parte, nella convinzione erronea che basti sapere cosa fare per farlo.

Così questi bambini, anche piccolissimi, si trovano immersi in una società che li esorta alla magrezza ma che non gli insegna a riconoscere e gestire le emozioni rispetto al cibo, spianando la strada a un ulteriore aumento dei disturbi alimentari e a un’ulteriore diminuzione dell’età di esordio.

Tornando a mio figlio, vedo che quando è sereno e il cibo gli piace, mangia di gusto. Come me, tende a perdere l’appetito se gli viene messa fretta, se è ansioso o al contrario molto eccitato. Ho deciso che non commenterò mai più il suo corpo o quello che lascia nel piatto.

Piuttosto, gli chiederò come sta e se ha voglia di parlare.

E’ per questo che è importante avvicinarci al tema delle emozioni nell’infanzia e nell’adolescenza rispetto all’alimentazione attraverso la lettura di un libro dal titolo Le Mani in Pasta a cura di Laura Dalla Ragione e Paola Antonelli, edito da Il Pensiero Scientifico Editore.

Come si legge nella prefazione di Marino Niola,

“Questo libro nasce da un’osservazione partecipante sull’interiorizzazione dei modelli e degli imperativi alimentari nell’infanzia e nella prima adolescenza. Si tratta di un lavoro importante, tanto più prezioso in un contesto, come quello contemporaneo, in cui il rapporto con il cibo diventa il grande trasduttore di codici, il signifiant flottant di un’inquietudine epidemica che ha nella tavola la sua scena primaria”.

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