«Il mio migliore amico è un ventilatore. / Le mie vacanze durano due ore: / per essere precisi il tempo che ci vuole / per fare due chilometri in Tangenziale». Si parla di it-pop – cioè del nuovo pop italiano spesso chitarr(in)a e voce, comunque strettamente legato al cantautorato più classico – come di un genere che ha ridefinito il concetto di sfiga e il ruolo del perdente dentro canoni cool, patinati, sostanzialmente un po’ di facciata.

Ecco, questi versi in apertura sono di Come stai, una canzone di Babalot uscita nel gennaio del 2015 insieme a un album (Dormi o mordi) a cui nessuno già all’epoca aveva fatto caso, e però ci ricordano lo stesso cos’è e quale spleen nasconde davvero l’indie-pop alternativo italiano. Marcano una distanza, lo fanno con le radici. Perché proprio il loro autore, che col tempo si è defilato dalla musica e anzi quando l’ha pubblicata aveva già archiviato gli anni di (relativa) fama, è il padre dimenticato di tutti i nuovi, quello che ha giocato d’anticipo anche sui tempi, visto che all’epoca la musica indipendente italiana era campo per pochi ascoltatori, con risultati che suonano famigliari eppure lontani per sfumature e credibilità.

Per restituire i giusti meriti, allora, lo scorso mese è uscita Doppleganger #2, una raccolta-tributo di cover originali dei suoi pezzi fondamentali a opera di piccoli e grandi eredi come Lo Stato Sociale, Brace, Bonetti, i Cosmetic e maggio, in attesa della ristampa – in calendario in autunno – del suo disco cult Che succede quando uno muore, uscito nel 2003 per la storica e pazza etichetta Aiuola dischi. Anche più dei successivi Non sei più (2011) e Dormi o mordi (2015), entrambi inseriti in una scena che stava già cambiando, i veri precursori di tutto sono lo stesso Che succede quando uno muore, s/t (2001) e Un segno di vita (2005), per quanto – soprattutto grazie a questa compilation, che spoglia i pezzi originali dal lo-fi indie-pop dell’epoca per rivestirli in maniera più attuale – è evidente come una certa omogeneità d’intenti li avvolga collettivamente.

Prendere il pezzo manifesto di una carriera per capire: Canzone di protesta contro i cantautori, scritta a metà anni Duemila da lui che ovviamente è cantautore, rappresenta un punto di rottura con tradizione e relativa narrazione («Non immagini che palle, / la vita dei cantautori»), raccogliendo le stimmate dei freak storici, da Rino Gaetano a Ivan Graziani su tutti, per aggiornare la canzone d’autore italiana, nel senso di sabotarla, farla uscire dai binari per ripartire. All’epoca, a percorrere la stessa traiettoria c’era anche il Bugo degli esordi de La prima gratta, ma se possibile qui il ripensamento è pure più radicale.

Il linguaggio surreale e lunatico di Babalot

Quindi, di che parliamo? Di una scrittura che ritroviamo (quando va bene) per esempio in Calcutta, specie nel primo, oppure (quando va male) nei vari cloni che sono spuntati subito dopo. Cioè: un linguaggio surreale, a tratti non-sense, sicuramente lunatico e zeppo di giochi di parole («Mettiti la sciarpa e stai attento alle correnti di pensiero», da Fioriblu) ma anche pieno di riferimenti al quotidiano, per strutture melodiche a volte sghembe eppure dai ritornelli affilati (uno su tutti: lo schizofrenico saliscendi Riccardo), verrebbe da citare battistiani, orecchiabili ma mai banali, semplici e dai pochi accordi ma mai semplicistici. Sono perle di indie-pop adesso introvabili – nella forma, nelle intenzioni – quelle che colorano Doppleganger #2, e che valgono la riscoperta della discografia originale di Babalot.

Il resto lo fanno i testi, che sotto strati di disincanto e post-ironia celano una malinconia esistenziale urgente e credibile, nata in primis dallo scorno fra le ambizioni di una vita da rock star e una realtà d’ufficio, in cui la musica entra solo come passione fa weekend – una rarità, in epoca di sedicenti wannabe già arrivati al primo pezzo su Spotify. Dicevamo di Come stai («A volte mi godo un po’ la depressione / come il pipistrello quando sorge il sole»), ma ci sono anche l’inno Ferie mentali e le sue vacanze impossibili, appunto il disgusto per la retorica di Canzone di protesta contro i cantautori (che sembra urlare: ma quali cantautori?), lo strazio di quella gran scheggia di presa male che era e resta Schifo, il viaggio mentale fuori da una vita noiosa e infame di una proto-hit it-pop come La lavatrice e il muro. La sfiga, quella bella e vera.

E insomma, non solo Babalot era antesignano silenzioso e dimenticato di ciò che sarebbe diventato il pop italiano di lì a vent’anni; ma rappresenta, soprattutto, un auspicio per ciò che sarebbe potuto diventare, e che invece non è stato. Un qualcosa di brillante, fresco e soprattutto alternativo, con una tristezza autentica pronta per essere esorcizzata. In attesa di un eventuale ritorno e consci che chi c’era non può che ricordarlo con affetto, riscopriamocelo.

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