Sul blog Il puntino del riflesso è stata pubblicata questa bella poesia di Chiara Ciccone dedicata, presumibilmente, al suo gatto. La giovane poetessa romana ci prende per mano e ci conduce dentro un mistero che è al tempo stesso felino ed umano:

Il mio gatto
Sembra non curarsi dei miei dolori
Proprio non riesce a capirli
Questi melodrammi così umanamente
Poco umani
Con quel suo zampettìo indifferente
Sfiora il pavimento
Per non contaminare
Con la polvere dei miei malesseri
I suoi cuscinetti di velluto
E se ne sta indolente
Su sedie letti divani
Ama guardare dall’alto
Valutare, verificare

Giudicare al momento giusto
Lanciare maledizioni silenziose
Sulla mia pessima morale
Da mortale teatrante
Per fortuna
Sembra dimenticarla ogni notte
In cui con clemenza
E carità cristiana
Decide di non cacciarmi di casa
E dormire sulle mie gambe
Solo così posso essere sicura
che il mattino successivo
Sarò ancora in vita:

Grazie al suo lavoro sporco
Da agnello di Dio
Che redime paziente
I miei peccati quotidiani

Un testo in cui lo sguardo dell’umano sul gatto si trasforma in quello del gatto sull’umano, in cui inizialmente si parla del mio gatto ma solo per scoprire, alla fine, che è piuttosto l’autrice ad essere sua, del gatto.

Tutto il fascino di questa poesia si regge su questa reciproca appartenenza degli sguardi in cui ogni giudizio sull’altro è al tempo stesso il rivolto del giudizio su di sé in un apparente processo di idealizzazione che è invece una decostruzione dell’umano.

La nostra animalità,
non del tutto perduta

Non c’è antropomorfismo ma un corpo a corpo con i propri fantasmi che trova nel corpo e nelle movenze del gatto la forza simbolica per articolarsi in parola. Non un rapporto simbolico ma simbiotico nel diverso modo di vivere l’animalità.

L’autrice insiste sul dolore umano che ha qualcosa di falsamente umano, è un melodramma, più oltre ci parla del suo essere teatrante. Ebbene, il gatto non capisce questa falsità, non capisce l’umano che mente a sé stesso. Vede l’umano per ciò che è e ne rimane colpito. La poesia scorre veloce ma in ogni verso apparentemente leggero c’è una densità che incute rispetto: come il passo veloce del gatto, i versi incamerano lo sdegno regale dell’animale rispetto alla bassezza umana.

Le zampe del gatto corrono veloci, indifferente allo sporco di quella bassezza. La polvere, la polvere che siamo e la polvere cui ritorneremo, è, in fondo, la consapevolezza della nostra mortalità. Ma solo della nostra, non è la vera consapevolezza della mortalità che tutti ci accomuna, della mortalità in sé: perché solo elevandoci a quest’altezza, che è la stessa in cui si libra lo scatto leggero del gatto, potremmo veramente capire l’umano.

Questa mortalità è invece da noi vissuta come malessere. Il possesso della vita che ci sfugge, che mette in crisi il nostro desiderio di controllo, attanaglia e danna ogni sforzo di essere ciò che siamo.  

Ma il gatto, ci informa l’autrice, non si cura dei nostri affanni, la sua indolenza è scandalosa e imperdonabile per noi che non ne siamo capaci, perché anche in una condizione di noia e passività sentiremmo il pungolo dell’insoddisfazione, di quel vuoto incolmabile che abbiamo dentro.

Il gatto pensa, come ben sapeva T. S. Eliot, il suo distacco dal nostro modo di pensare non è quello dell’essere inferiore, condannato all’oscuro sentire, alla dipendenza istintiva. È un compiaciuto guardare le cose dall’alto e, nel guardarle, giudicarle.

C’è un giudizio raffinato nel gatto, il suo cogliere l’attimo, essere presente a sé stesso, un’intensità di vita che non è bestiale e ottusa sensibilità ma intuizione, illuminazione, genialità. L’autrice, come ogni poeta, sogna di partecipare a questa creativa e sapiente spontaneità ed ogni verso ben riuscito è indice che quell’animalità in noi non è completamente perduta.

Ma è un sogno che ci è permesso sognare solo nel sonno della ragione in cui vive la poesia, non nel nostro quotidiano. Il gatto non può che dir male della sua sedicente padrona impegnata a vivere male, moralmente e mortalmente (bellissimo il gioco di parole), in una morale che è sempre vittima dell’apparenza, in una morte che è sempre anticipata nell’immaginazione come in una scena, mai davvero vissuta: perché gli esseri umani non riescono a vivere la morte, per questo falliscono la vita.

È la nostra maledizione: il gatto non fa che ributtarcela addosso.

Come in uno specchio lo sguardo impietoso del gatto restituisce all’autrice i propri tentennamenti e le proprie imprudenze, le cadute e le elevazioni, tutto ciò che viene vissuto con un’intensità eccessiva: l’umano è un teatrante mortale che mette in scena il proprio conflitto interiore. Senza dimenticare che, proprio in questo sta il segreto non solo della sua irrequietezza ma anche della sua violenza. L’uomo come animale che recita sé stesso, un animale mortale: anche nel senso che dà la morte agli altri animali.

Ma il giudizio del gatto è un giudizio in fondo benevolo perché matura nella notte dell’inconscio, nella profondità oscura della vita in cui tutte le anime reciprocamente si appartengono. La vita che ogni notte si rinnova e verso la quale non si può provare che empatia e che costantemente ci sfugge, potendola solo delirare nella filosofia eretica o cantare nella letteratura ebbra.

Il gatto è l’unico tra i due a stare al proprio posto, dunque ad avere una casa in senso proprio dalla quale potrebbe ben scacciare l’abusivo umano con cui convive. Perché noi invece siamo condannati ad un’esistenza nomade, stranieri dell’essere, mai capaci di essere ma solo di far finta di essere o, al massimo, di sostare, di permanere, di gravare sulle cose con la nostra ingombrante presenza, col nostro vorace desiderio di rassicurazione.

E quale più grande benedizione può darci il gatto che addormentarsi sulle nostre gambe, fidarsi – lui, il mal fidato e circospetto felino – dell’infido umano che non perde occasione per deluderlo?

Alla maledizione del giudizio, dunque, corrisponde la benedizione del gesto che placa la nostra ansia e ci rassicura: domani saremo ancora in vita. E sarà una vita in cui ancora dovremo decidere se vivere veramente o fallire nell’apparenza di vita. Ben sapendo che sceglieremo ancora e sempre la menzogna.

Il linguaggio cristiano di questi ultimi versi è rivelatore: c’’è un sacrificio, un lavoro sporco, che l’animale compie per redimere la vita fallita dell’umano. Come nei primordi dell’umanità, così ancora e sempre, è il sacrificio animale che ci mette a nudo di fronte alla nostra animalità, ci rivela a noi stessi come un animale che sceglie il peccato perché si illude di essere libero.

Ma la vera libertà è quella leggera scommessa che si incarna nella beatitudine sorniona del gatto, nella pazienza infinita di una vita che permane presso di sé e ci indica la via della salvezza. Il riconoscimento del nostro essere tutte e tutti animali persi nel gioco di un’esistenza che ruota attorno al morire, che ha nel morire il proprio centro e la propria fine ma non il proprio fine.

La celebrazione della vita che promana da questi versi non ha la forma dell’euforia umana ma quella delicata, profonda, buffa e serissima del gatto: uno zampettìo che ci scuote dall’apparenza scenica cui ci condanniamo e ci risveglia ad una maggiore consapevolezza di noi stessi e dell’Altro.

Irriverente e abissale come un gatto che ci fissa con un occhio semi aperto. E con questo pensiero, vi lascio alle riflessioni di Felice Cimatti, docente di Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Nel suo saggio Animalità e desiderio. Storie di gatte e non solo fa un interessantissimo excursus da Michel de Montaigne a Charles Baudelaire, da Sigmund Freud a Jacques Lacan, spiegandoci che parlare di animalità significa prima di tutto parlare del desiderio, del corpo, della sensualità, ma anche di libertà.

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