Violenza ostetrica, come riconoscerla e affrontarla
La violenza ostetrica non ha niente a che fare con la figura dell'ostetrica. Il libro "Senza spegnere la voce" di Giorgia Landolfo

La violenza ostetrica non ha niente a che fare con la figura dell'ostetrica. Il libro "Senza spegnere la voce" di Giorgia Landolfo
Ho cominciato a lavorare come ostetrica di sala parto nel 2002 e l’ho fatto per otto lunghi anni durante i quali sono stata spesso testimone di trattamenti inumani, irrispettosi, dannosi verso le partorienti. Denunciarli? Praticamente impossibile dal momento che nessuno dei presenti avrebbe mai testimoniato in mio favore e che le stesse persone che li subivano non si rendevano conto della gravità di quello che stava succedendo, né gli operatori sanitari avevano coscienza di quello che significava il loro modo di agire. Era tutto culturalmente accettato e normalizzato.
Questa forma di abuso si chiama violenza ostetrica e non ha niente a che fare con la figura dell’ostetrica in quanto tale ma piuttosto si riferisce ad abusi legati alla pratica dell’ostetricia, la branca della medicina che si occupa di gestire, sorvegliare, migliorare (a volte) gli esiti del parto tra gli esseri umani.
La violenza ostetrica viene definita in ambito giuridico per la prima volta nella Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia del Venezuela, nel 2007, Articolo 15(13), come:
“Appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.
Da quando esiste la civiltà umana le donne sono state portate sempre di più a credere che il parto sia un evento pericoloso per madre e bambino (ci sarebbe da chiedersi come abbiamo fatto a sopravvivere come specie… ma ve lo racconterò prossimamente) e che quindi durante la gravidanza e il parto sia normale che qualcun altro, qualcuno di più esperto, prenda decisioni al loro posto, che si dica loro cosa devono fare, (spesso trattandole senza rispetto, come delle bimbe capricciose), che sia normale agire sul loro corpo interventi dolorosi (e dannosi) anche senza consenso per il bene loro e del bambino, nell’ipocrita consuetudine culturale del più si fa e meglio è. Assunto smentito già nel 1985 dall’OMS con le raccomandazioni Tecnologia appropriata per la nascita ancora in gran parte disattese e ribadito nel 2014 con un importante documento sulla violenza ostetrica.
Fino a pochi anni fa in Italia è stato tabù parlare di violenza ostetrica ma poi un gruppo di attiviste coraggiose ha lanciato una campagna molto importante chiamata Basta tacere e ha scoperchiato il vaso di Pandora raccogliendo moltissime testimonianze di donne che avevano subito, e di sanitari che avevano assistito a, violenza ostetrica.
Finalmente, anche grazie ad associazioni come Amina ODV che si occupano di raccogliere testimonianze e di offrire sostegno, la narrazione intorno alla maternità sta piano piano cambiando, sempre più donne reclamano la loro voce e scelgono di dire di no a trattamenti inutili che di conseguenza possono essere dannosi per loro e per il loro bambino.
Violenza ostetrica però non è soltanto subire interventi, a volte può essere necessario intervenire ed è giusto che chi lavora nel settore materno infantile non tema di doverlo fare, ma subirli senza aver ricevuto le informazioni necessarie a fare una vera scelta, o essere trattata senza rispetto, consenso ed empatia.
Infatti il trauma spesso nasce dal modo in cui siamo state trattat@ non dall’evento in sé e questo vale anche per tanti altri aspetti della vita.
E’ uscito da poco il libro Senza spegnere la voce che esordisce così:
“Non è normale ritrovarsi in un pronto soccorso, in uno studio di ginecologia, in una sala parto e avere paura di fare domande. Non può accadere di ritrovarsi spaventate a chiedere ai medici cosa ci sta accadendo e cosa stanno facendo mentre mettono le mani nella nostra vagina, osservano le nostre ovaie, la nostra cervice. Mentre diamo alla luce un figlio o quando desideriamo farlo. Oppure mentre richiediamo una visita di routine, un contraccettivo, un aborto, una risposta a un dolore che non ha nome”.
Il libro parte dal racconto della storia di Valentina Milluzzo, una giovane donna morta per l’ipocrisia dell’obiezione di coscienza davanti ad un aborto inevitabile e ci ricorda che
“una delle espressioni più subdole del patriarcato consiste nel minimizzare il dolore femminile in tutte le sue forme, nel non fornire alle donne tutte le informazioni necessarie per la loro salute, e in special modo quella riproduttiva.”
Alla triste e assurda vicenda di Valentina aveva già dato voce anche la ginecologa Lisa Canitano con uno spettacolo teatrale molto toccante Io obietto. Proprio con la collaborazione della Canitano, l’autrice di Senza spegnere la voce, Giorgia Landolfo, stila un vademecum il cui obiettivo è:
“aiutare le donne a proteggersi da possibili trattamenti sanitari abusanti ponendo l’attenzione su una serie di campanelli d’allarme che, durante una visita medica o in una struttura ospedaliera o privata, sono segnali di una possibile assistenza inadeguata.”
Per evitare di subire abusi a mio parere è estremamente importante informarsi, ascoltarsi e soprattutto non dare retta a quella vocina che spesso ci dice: Stai buona, non dare fastidio, non fare troppe domande, ma che ne sai tu…ecc. ecc. per tirare fuori la guerriera che è in noi che pretende rispetto, informazioni esaustive (molto utile chiedere sempre perché) e che sa intuire sempre cosa è meglio per sé stessa.