È tutta un gioco di rimandi  e ricordi la quarta stagione di Stranger Things, più ancora delle tre precedenti. A tratti innervosente, a tratti eccessiva, raramente noiosa, e qualche volta spettacolare: da come finisce è chiaro che arriverà una quinta stagione, ed è chiaro anche che io la vedrò.

Gli anni Ottanta e Stephen King

E’ detto e stradetto ma vale la pena ripeterlo: la serie si svolge negli anni Ottanta e guarda al passato con la lente nostalgica con cui American Graffiti e Happy Days vedevano gli anni Sessanta. Giovanotti dai capelli lunghi o semilunghi; nerd che ancora non erano di moda; i gelati, gli hamburger, la Coca Cola in bottigliette di vetro, la musica (su questo ci torneremo); e anche la guerra fredda, con i cattivissimi e un po’ tonti sovietici (però quest’anno, con lo scontro ovest-est tornato tragicamente all’onore delle cronache, non fanno più sorridere). Per gli amanti di King.

Sarebbe bello sapere che Stephen King ha ricevuto un qualche compenso –  al di là della citazione esplicita: nell’ultima puntata infatti uno dei protagonisti legge a voce alta The Talisman, scritto da Stephen King e Peter Straub nel 1984. Perché le citazioni implicite sono innumerevoli; gli autori, i fratelli Duffer, devono essersi abbeverati a lungo all’immaginario del cosiddetto maestro dell’horror, che poi non è solo dell’horror ma del disagio, della vita difficile, dei pensieri cupi e tormentosi dentro ognuno di noi.

Da It e da The body deriva l’idea del gruppo di ragazzini amici. Il personaggio di Eleven pesca pesantemente da Charlie e da suo padre Andy nell’Incendiaria: la ragazzina dai poteri paranormali – il cui padre perdeva sangue dal naso ad ogni sforzo psichico. La casa in cui si entra per incontrare il mostro: ancora It.

Lo stesso concetto di un mostro che vive in una sorta di doppione di una cittadina sventurata: sempre It. E ancora: i mostri nelle teche di vetro da Tommyknockers (Le creature del buio). Tanti i richiami ai ragazzi disadattati, agli adolescenti infelici, alla distanza fra i ragazzi popolari e quelli che no (Carrie), e in quest’ultimo episodio anche la sala del ballo della scuola, il prom, inondata di sangue (sempre Carrie). Sempre nell’ultimo episodio (spoiler!) il potere serve anche a resuscitare una persona amata: come andrà a finire? Perché nel terribile Pet Semetary non andava a finire niente bene. Aggiungiamo l’interferenza stupida e brutale delle Autorità (anche qui, L’incendiaria).

 Lui, il grande scrittore, il 3 luglio ha generosamente twittato

“Il penultimo episodio di Stranger Things è così bello, e così spaventoso, che ho quasi paura di guardare l’ultimo”.

In realtà lo guardiamo sapendo che in fondo deve finir bene – non tutto tutto bene, ma quasi tutto – e quindi con un certo cauto ottimismo.

La grande differenza, credo, è che la magia di King sta nel presentarci – prima dell’irrompere di un mondo distopico – un mondo reale che è già pieno di mostri, verissimi e dall’aspetto umano; come ce ne sono tanti anche nella nostra vita quotidiana. Chi affronta poi l’orrore paranormale ne emerge con qualche arma in più per confrontarsi con gli orrori comuni.

La musica, antidoto al mostro

Questa stagione di Stranger Things ha anche segnato il revival di una canzone di Kate Bush, Running Up That Hill (1985), che Max ascolta ossessivamente; un testo significativo per la ragazzina che si tormenta di sensi di colpa per la morte del fratello persecutore  (“se solo potessi, farei un patto con Dio e mi scambierei di posto con te correrei io su per quella collina”).

La musica, si scopre, è un buon antidoto al mostro, perché la sua potenza evoca gli affetti e i ricordi, che al mostro fanno paura. Sulla potenza della scena in rete si trovano fiumi di inchiostro, ma c’è un’altra canzone importantissima, è Master of Puppets dei Metallica, che Eddie (Joseph Quinn, ragazzo sventurato fra i più simpatici mai visti su uno schermo) suona sul tetto di una baracca fra i lampi rossi del Sottosopra, per attirare i pipistrelli malefici in uno sforzo combinato col gruppo per indebolire il mostro… è una storia lunga; comunque c’è lui che suona e Dustin (Gaten Materazzo) che lo ammira entusiasta, ed è tutto molto metal (Maestro burattinaio tiro i tuoi fili, piego la tua mente e spacco i tuoi sogni, accecato da me non vedi più nulla, chiama il mio nome e ti sentirò gridare).

Il gruppo degli amici, sì, ma…

Si richiama a Stephen King ma anche alle innumerevoli sitcom degli ultimi quarant’anni imperniate sull’amicizia. Il problema semmai è che in questa quarta stagione il gruppo si è allargato a comprendere tanta gente che sembra un romanzo russo. Gli autori fanno attenzione a dividerli in luoghi geograficamente diversi, il che rende più facile seguirli, ma sono sempre davvero tanti.

A Hawkins restano i fratelli maggiori Steve, Nancy, Robin (la new entry Maya Hawke, figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke), e i piccoli Dustin, Lucas con la temibile sorellina Erica, a cui si aggiunge la coraggiosa Max di Sadie Sink e un’altra new entry, Eddie, paladino dei nerd, ingiustamente accusato.

In trasferta itineranti in giro per gli USA ci sono Eleven (Undici in italiano; Millie Bobby Brown si conferma straordinaria anche se deve essere duro oscillare come range espressivo fra tristezza e orrore, con qualche momento di rabbia) con il fidanzatino Mike, i fratelli Will e Jonathan, a cui si aggiunge il pizzettaro perennemente fatto Argyle. Dimentico qualcuno?

Poi c’è il gruppo in trasferta in URSS; non vorrei fare spoiler ma con Joyce (Winona Ryder, of course) e Murray riappare, gloriosamente, David Harbour come Jim (palestratissimo dopo il carcere sovietico) e anche qui si aggiungono al sottogruppo un paio di altri personaggi, russi in fuga. A margine restano solo un paio di medici (fra cui Matthew Modine nel ruolo del mefitico papà, quanta strada da Full Metal Jacket di Kubrick) e la magnetica presenza di Jamie Campbell come Uno, da ragazzetto a fratello maggiore di Eleven nel laboratorio a tutte le sue incarnazioni successive…

Altri motivi di disordine

La trama. Non entro nei dettagli, sia perché evito gli spoiler sia perché non so se valga la pena di tracciare l’evoluzione della vicenda: il Sottosopra si trasforma e in un colpo di scena scopriamo la vera storia di Undici e la vera storia dei mostri che popolano la città speculare di Hawkins. Solo che ci mettiamo un bel po’ a scoprirlo, e nel frattempo succedono tante altre cose, così che si rischia molto spesso di perdere il filo (che c’è).

Il gigantismo

Le ultime due puntate (capitoli, li chiamano) sono ipertrofiche; un’ora e mezza ciascuna, insomma ognuna è un film, richiedono un certo impegno. E allora, ne vale la pena?

Diciamo questo.

Se da ragazzine/i siete stati nerd, ne avete sofferto e non vi è bastata la visione a manetta di Big Bang Theory per riscattarvi; se ancora oggi vi piace giocare a Dungeons&Dragons; se amate Stephen King; se non vi annoiano i mondi alternativi popolati da serpenti tentacolari, pipistrelli e mostri sanguinari. O se avete nostalgia degli anni Ottanta, che li abbiate vissuti o meno.

Ma soprattutto se vi piace il cinema simbolico, anche se Stranger Things non è Il Settimo Sigillo, qui c’è pane per i vostri denti. In molti momenti e più di tutto nella scena in cui Undici scatena l’inferno e abbandona per sempre il Padre; non si rifà a Stephen King ma agli archetipi classici.

Stranger Things per lo più riesce nel gioco di prestigio di ogni creazione fantastica, la sospensione della realtà, quella che in inglese si chiama suspension of belief: puoi farmi vedere le cose più assurde ma io, per lo spazio in cui mi immergo nel tuo mondo, ci crederò, perché non credo più al mondo reale come lo conosco. E non è una magia da poco.

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