Dopo l’intrigante Scappa – Get Out del 2017, Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2017, e la notevole pellicola Noi del 2019, giunge nelle sale italiane l’ultima fatica di Jordan Peele Nope, in distribuzione dall’undici agosto. Fa piacere che, anche durante l’estate, qualche nuovo lungometraggio venga distribuito considerando che da noi le nuove uscite stanno giungendo con il contagocce.

Nope incuriosisce per l’intelligenza filmica e la lentezza con cui la storia si svolge, alcuni hanno letto il film come metafora della recente pandemia, a mio avviso qualcosa d’altro si muove e scaturisce dalle immagini. Vediamo di illustrare che cosa.

Procediamo a scovare i segni, gli indizi che il regista di newyorkese ha disseminato. La lentezza e la tensione giocano molto con la definizione di suspense di Hitchcock ma soprattutto è il cinema che cita, che parla di se stesso.

Qual è l’oggetto del cinema? Il cinema medesimo. Si parte ricordando gli esperimenti di Eadweard Muybridge, in particolare la serie Anima Locomotion che raffigura il movimento dei cavali al galoppo, fotografo e precursore del cinema che con i suoi esperimenti, usando la tecnica della cronofotografia e successivamente con l’invenzione dello zoopraxiscopio, permise la visione delle prime immagini in movimento, in breve l’antesignano del cinema.

I due protagonisti (Daniel Kaluuya e Keke Palmer) pare siano antenati del fantino che montava il cavallo proprio nei primi esperimenti. Quando i due notano strani accadimenti e si accorgono che una sorta di disco volante staziona sul loro ranch non si spaventano ma tentano in tutti i modi di catturare un video del fatto.

Peele pone il forte accento su che cosa significa fare cinema, sul significato della visione: svela l’oggetto del cinematografo che è il cinema stesso, il puro gesto di riprendere.

Non a caso si dovranno affidare al supporto di un regista ossessionato dall’immagine perfetta, dotato di una cinepresa con pellicola, visto che la presenza dell’oggetto sconosciuto determina l’impossibilità di usare apparecchiature elettriche.

Tutto ciò viene reso ancora più accattivante dalla riprese ariose e dai continui riferimenti al genere western (l’immagine di Daniel a cavallo che raggiunge la sorella in pericolo alla fine del film; la sua felpa arancione con il logo Panavision, storica azienda che ha creato le lenti anamorfiche usate proprio agli inizi degli anni ’50 quando il cinema americano, in crisi per la prepotente presenza della televisione, decise di escogitare un nuovo sistema, il Cinemascope, che offrisse un’esperienza emotiva più accattivante; e in questo senso il genere western si prestava senza dubbio).

Peele pare voler problematizzare la speculazione circa l’essenza del cinema; la capacità di svelare il suo oggetto è definita dalla possibilità di un ritorno alle cose, alla fruizione della pellicola come oggetto.

Ci viene in aiuto il recente testo del filosofo Byung-Chul Han, tratto da Le non cose:

”La digitalizzazione strappa alle cose ogni materialità ‘recalcitrante’, ogni riottosità  […] se il mondo è unicamente costituito da oggetti disponibili e consumabili, non possiamo entrarvi in relazione”.

Ritornare alla pellicola come oggetto significa esperirne la sua caducità, la relazione, l’incontro, la tonalità affettiva. Al contrario il digitale e la sua disponibilità trasforma il cinema da oggetto a esperienza esperibile con i supporti mediatici in ogni momento. Le persone non vanno più in sala, luogo deputato alla visione cinematografica, in cui l’esperienza è condivisa con le altre persone.

In un cinema estremamente disponibile, fruibile in ogni momento, dai contenuti semplici e immediati, il regista opta per una pellicola pregna di riferimenti al cinema del passato e con una buona dose d’azione, ma nello stesso tempo problematica, che offre una pluralità di significati e ci permette di riflettere.

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