L’Esposizione Internazionale d’Arte, nata nel lontano 1895, è ancora la grande madre di tutte le biennali/triennali/quadriennali proliferate ovunque. L’esposizione è divisa tra i Giardini (che sono la sede originaria delle manifestazioni della Biennale di Venezia e dove furono costruiti anche veri e propri Padiglioni Nazionali) e l’Arsenale (il luogo in cui, a partire dal quattordicesimo secolo, si costruivano le navi della flotta della Repubblica di Venezia) che ospita anche le Partecipazioni Nazionali. Molto ricco anche il programma dei 30 Eventi Collaterali organizzati in numerose sedi della città di Venezia.

In evidenza, inoltre, anche la partecipazione del Vaticano che, per la sua prima volta alla Biennale, ha scelto la sede del carcere femminile alla Giudecca (ma a questo dedicherò un articolo specifico, perché merita). Procediamo con ordine.

Biennale: il titolo

Stranieri ovunque – Foreigners Everywhere, pensato dal curatore della Biennale, Adriano Pedrosa, è un’espressione che arriva dal titolo di un’opera del collettivo Claire Fontaine, che da Parigi (dove è stato fondato nel 2004 per combattere contro il razzismo e la xenofobia) si è spostata a Palermo, scelta per il suo carattere anarchico e caotico.

«L’espressione Stranieri Ovunque ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri»

Adriano Pedrosa

L’espressione Stranieri Ovunque ci accoglie fin da subito nel padiglione centrale dei Giardini, ma l’installazione realizzata attraverso sculture al neon, ripetuta in varie lingue, si trova all’Arsenale.

Il titolo manifesta l’intenzione di voler capovolgere l’assetto con cui siamo stati abituati a concepire l’arte (e il mondo?), mettendo in primo piano chi da sempre è stato relegato nelle retrovie.  Il concetto di straniero può quindi essere interpretato in senso lato: artisti queer, che si muovono all’interno di diverse sessualità e generi e che sono stati spesso perseguitati o esclusi; artisti indigeni, che vivono ai margini del mondo dell’arte istituzionale; artisti autodidatti, che vivono ai margini del sistema dell’arte, spesso insieme e/o confusi con gli artisti naïf.

Nel realizzare questo progetto, come in tutte le scelte, forse si è sacrificato qualcosa (ad esempio: la contemporaneità espressa in ambito tecnologico è assente), e l’ansia riparatoria nei confronti di chi ha subito sembra voler prevalere su tutto il resto. Però l’offerta è enorme.

Minoranze e politica, tra pittura e scultura

Qualcosa che non manca a Foreigners Eveywhere è il colore. L’ingresso del Padiglione centrale dei Giardini ci accoglie con delle pitture realizzate dal collettivo Mahku (Movimento dos Artistas Huni Kuin) che rievocano la foresta e la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore). Il mito descrive il passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering, a simbolo di passaggi tra contesti e territori lontani.

La pittura figurativa è molto presente in questa edizione della Biennale, a dimostrazione di come sia scelta dalle c.d. ‘minoranze’ come strumento espressivo, (ma di questo ne avevamo già parlato). La Biennale diventa così anche un’occasione per vedere le opere di artisti già noti nel panorama contemporaneo, come il giovane Louis Fratino, i cui oli a tema LGBTQ+ e i nudi maschili che richiamano tanto l’estetica di Picasso si trovano a pochi passi dalle opere di Filippo de Pisis, dandy, aristocratico, scrittore e pittore, che dimostra di essere contemporaneo tra i contemporanei con lo stupendo Volto di ragazzo (del 1931).

Louis Fratino
Filippo de Pisis

Sulla stessa linea queer, ma esposto all’Arsenale, Salman Toor, pittore pakistano residente a NYC da tempo nella classifica degli artisti ultracontemporanei più quotati, le cui ambientazioni ci ricordano un po’ Goya.

Salman Toor

Anche i paesaggi trovano il loro palcoscenico, nella dimensione onirica proposta da Leopold Strobl, pittore autodidatta alla sua prima biennale.

L’esplosione di colore ed energia è un po’ ovunque, dalla celebrazione della sottocultura techno del padiglione Ungheria di Márton Nemes al padiglione degli Stati Uniti che, nella visione di Jeffrey Gibson, diventa uno spazio in cui si mescolano arte indigena e dei nativi indiani con le istanze queer, tutto condito da un linguaggio molto ibrido (perline, collage, ricami…). 

L’invito di Pedrosa è stato accolto in modalità diverse e la risposta di alcuni Padiglioni ha dimostrato l’attualità della struttura ottocentesca della Biennale (divisa in padiglioni nazionali), che sembra in contraddizione con un concetto di arte globale e priva di identità nazionali.

E’ il caso dell’Olanda. Il collettivo Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise  (CATPC), in collaborazione con l’artista Renzo Martens e il curatore Hicham Khalidi, ha realizzato un progetto basato su sculture prodotte con un’argilla proveniente dalle foreste secolari rimaste a Lusanga, nella Repubblica Democratica del Congo (dove è sorta la prima piantagione della società anglo-olandese Unilever), rilavorate con olio di palma e cacao. L’intenzione è quella di aiutare gli ecosistemi di quelle aree, una volta ricchi di foreste pluviali, oggi suoli impoveriti. A ciò si unisce un grido di accusa del collettivo, rivolto contro molti musei occidentali, accusati di essere stati finanziati con i profitti provenienti dalle piantagioni.

Exposition Coloniale, il progetto di Aleksandar Denić per il Padiglione della Serbia, il padiglione che ancora oggi reca sulla facciata, sopra l’ingresso, la scritta JUGOSLAVIA. All’interno, in ambienti dall’identità non ben definita, troviamo una grande scritta al neon, EUROPE, a ricordare un processo non ancora realizzato (o un sogno).

Le opere di Anna Jermolaewa per il padiglione austriaco. La video-installazione Rehearsal for Swan Lake (2024) che proietta le prove di danza del noto Lago dei cigni di Čajkovskij per descrivere l’uso propagandistico della televisione russa di trasmettere filmati del suddetto balletto nei momenti di instabilità politica. 

L’assenza dell’arte fa più rumore della sua presenza

Gli artisti sono come gli alberi: te ne accorgi quando mancano

(Giulia)

Israele doveva essere presente con il progetto presentato a settembre 2023 a cura di Mira Lapidot e Tamar Margalit, rappresentato dall’artista e regista Ruth Patir. Immediatamente sono nate le contestazioni a riguardo, sfociate in una petizione per chiedere l’esclusione del Paese. Una delle pagine più brutte della Biennale, e non solo.

“Ci aggrappiamo alla convinzione che debba esserci uno spazio per l’arte, per la libera espressione e creazione, in mezzo a tutto ciò che sta accadendo”, dichiaravano Lapidot, Margalit e Patir.

Risultato: il Padiglione di Israele è presente ai Giardini dell’Arsenale, ma ha scelto di restare serrato “fino al cessate il fuoco e al raggiungimento di un accordo per la liberazione degli ostaggi” fatti prigionieri da Hamas lo scorso 7 ottobre. Una “scelta di solidarietà con le famiglie degli ostaggi e della grande comunità di Israele che chiede un cambiamento”.

Ricordiamo anche che la Palestina, non riconosciuta dall’Italia come Stato sovrano, non ha mai avuto l’opportunità di presentare un proprio padiglione nazionale, ma è stata presente agli eventi collaterali alla Biennale.

Qualcosa di simile era già accaduto nel 2022 a causa del conflitto russo-ucraino, ma allora entrambi i padiglioni restarono chiusi: quello ucraino per l’impossibilità di proseguire i lavori nelle condizioni di un Paese in guerra e quello russo per le dimissioni del suo curatore e degli artisti russi coinvolti nella manifestazione. Anche in questa edizione la Russia non partecipa alla Biennale, mentre l’Ucraina è rappresentata negli spazi dell’Arsenale.

Biennale, e l’Italia?

Si intitola Due qui / To Hear il progetto espositivo per il Padiglione Italia. Il non essere straniero deve iniziare con il non essere stranieri a sé stessi e, quindi, ascoltare sé stessi. Il progetto, che ha il suo centro in una grande installazione sonora attraversabile dal pubblico, si sviluppa attraverso tre spazi modellati su diverse esperienze acustiche e luoghi di incontro, a suggerire la natura eminentemente relazionale del suono.

Anche Venezia, città di viaggiatori e stranieri per eccellenza, ha il suo Padiglione, forse il più romantico. Il Padiglione Venezia vuole essere questo: l’esplorazione di una condizione non geografica, non di lingua, non sociale ma affettiva, di ricerca di sé e della propria completezza emotiva e sentimentale. Il sentirsi a casa è senza dubbio una sensazione, ma spesso, nell’immaginario comune, è unicamente legato a un luogo o diversi luoghi in cui ci sentiamo liberi di essere noi stessi. Il progetto affronta questa dinamica in maniera intima scegliendo i linguaggi della poesia e della pittura in cui il visitatore può immergersi: come nella vita reale, ogni particolare ha il suo perché.

Passeggiamo tra le opere di Pietro Ruffo, di Safet Zec, di Vittorio Marella, di giovani artisti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, attraversando vari linguaggi, dalle pitture, alla video installazione sulle violenze subite dalle donne iraniane (argomento questo già archiviato in nome di nuovi opportunismi politici), fino alla scultura di Koen Vanmechelen ospitata all’esterno.

Abbiamo bisogno
di un luogo: ci vuole
una mano,
una casa, un sorriso,
qualcosa che ci faccia
da perimetro
.

F. Arminio

VADEMECUM

Mostra Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia 2023,

20 aprile – 24 novembre 2024.

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