Alfredino: la serie su Raiplay per la Gen X
Su Rai Play la mini serie tv sulla morte del piccolo Alfredino Rampi. Era il 10 giugno 1981 e la cronaca in tv non fu più la stessa.
Su Rai Play la mini serie tv sulla morte del piccolo Alfredino Rampi. Era il 10 giugno 1981 e la cronaca in tv non fu più la stessa.
Avevo appena compiuto 9 anni, ne avevo tre più di Alfredino. La TV a casa mia c’era da poco, i miei – comunisti e intellettuali – la ritenevano fonte diseducativa per i figli, forse un po’ come anche io e mia moglie oggi riteniamo tale il cellulare. Ricordo poco sul piano visivo, evidentemente quella diretta non mi colpì la retina, pur restando indelebile l’angoscia, nella mia formazione.
Mi ha colpito, ieri sera, mentre guardavo tutta d’un fiato le quattro puntate della serie co-prodotte da Sky Italia e Lotus Production (passate su Sky nel 2021, a quarant’anni dalla tragedia, poi su Rai Uno in prima serata l’11 e il 12 giugno 2024 e adesso su Raiplay), accorgermi di quanto ricordassi tutto, ogni passaggio di quelle maledette sequenze di salvataggio, ciascuna drammaticamente inutile. Le lacrime sono scese in abbondanza, in una sorta di corto circuito tra la mia infanzia, quella di Alfredino, allora bambino come me, e quella di mia figlia, che oggi ha l’età che avevo io allora.
Per Millennial e Gen. Z che non erano nat*, stiamo parlando di un terribile shock visivo, di pura pornografia dell’angoscia, di una spettacolarizzazione del dolore che ancora oggi costringe, noi della Gen X, a convivere con una ferita non riemarginabile: fu un punto di non ritorno della TV e del giornalismo italiano, infranta per sempre l’innocenza, spinti oltre le barriere del visibile e del narrabile.
La diretta infatti durò diciotto ore (interrotta solo dai tg) sul primo e sul secondo canale della Rai, a reti unificate, paralizzando l’Italia davanti allo schermo dalle 14.00 alle 20.00 del giorno 12 giugno 1981, con una media di 12 milioni di telespettatori, e una punta di 28 milioni di telespettatori. Un terrificante racconto televisivo puntato su ogni dettaglio dell’evolversi della tragedia del bambino caduto in un pozzo artesiano, con l’intervento di Vigili del fuoco, e con speleologi, volontari, acrobati, nani, contorsionisti che provavano a calarsi in quell’imbuto. Ma più le trivelle scendevano da una parte, più Alfredo scivolava dall’altra. Immagini che ci fecero penetrare la disperazione della madre, espressione dopo l’altra, fino allo spegnersi della voce del bambino, dopo 60 ore al buio. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini (Massimo Dapporto nella serie), rimase ai bordi del pozzo per 16 ore.
La miniserie, diretta da Marco Pontecorvo, sceneggiata da Barbara Petronio, Francesco Balletta e Alessandro Bernabucci e interpretata dal piccolo Kim Cherubini, ricostruisce tutto questo ma con toni incerti, in una sorta di accumulo didascalico, cercando una scorciatoia nella replica dei fatti senza però avere il coraggio dell’iperreralismo.
Un oggettivismo che lascia poco alla meditazione dell* spettatore, se non nella misura della naturale empatia verso le vittime, e che sembra, più che una scelta stilistica, un volersi proteggere dall’accusa ovvia della ricerca ruffiana delle emozioni facili. Il risultato però è quello di non riuscire a rendere i personaggi icastici e di non dare corda (già, corda..) alla storia. Perfino quando si osa e emerge un tentativo di liberarsi dagli schemi (il drone che sorvola la folla attorno al pozzo sulle note di Impressioni di settembre, con relativa polemica da parte della PFM, o l’utilizzo intelligentemente anacronistico di Alfredo, la grande canzone dei Baustelle), si avverte piuttosto la paura di delle reazioni del pubblico generalista, di tradire gli stilemi narrativi della fiction Rai, di scontentare qualcuno, insomma.
Brava Anna Foglietta, anche se ci tiene a distanza, intenso Luca Angeletti, nel ruolo del marito. Amabili i giovani idealisti: la geologa Valentina Romani e gli speleologi Giacomo Ferrara e Daniele La Leggia. Vinicio Marchioni e Riccardo De Filippis i miei due personaggi preferiti, ancora più bravi (soprattutto De Filippis) del prefetto che sovrintende il tentativo di salvataggio (Francesco Acquaroli): il primo è il vigile che riuscì a stabilire un contatto emotivo con il bambino, parlandogli per tutto il tempo, dopo che Alfredino aveva rifiutato di continuare a parlare con i genitori, non riuscendo più a credere alle loro parole durate troppo tempo in cui lo rassicuravano che lo stavano tirando su. Il secondo è Angelo, il volontario che, colto da folgorazione, si calò nel pozzo restandoci oltre il tempo in sicurezza per la sua salute, e riuscì ad afferrare il piccolo, prima che gli scivolasse dalle mani.
Scelta di grande effetto, invece, l’assenza di Alfredino nel racconto: la sua voce non si sente mai, nè compaiono mai immagini del corpicino imprigionato. Questa scelta narrativa dona drammaticità e potenza al racconto. Per altro, dopo la morte di Alfredo, i genitori chiesero di non far sentire più la voce del figlio.