“Ho letto libri, parlato con donne che si sono prostituite, ascoltato racconti quasi dell’orrore sulla vita che sono state costrette a fare: quello che sappiamo sulla mercificazione del corpo di una donna è nulla di fronte all’enormità della realtà. Non ho voluto riportare tutto questo: ho voluto far vedere la loro bellezza, la loro sensualità, che c’è, sempre, a prescindere da tutto”.

Adriana Luperto è una delle quattro donne che hanno fondato la Crumb Gallery, la prima galleria europea dedicata esclusivamente ad artiste donne, nata poco più di un anno fa a Firenze, già nella top ten delle gallerie più interessanti del decennio, tanto che Serena Dandini l’ha inserita nel suo festival L’eredità delle donne, e Letizia Battaglia l’ha scelta per i suoi nudi inediti.

Inaugura l’8 marzo, guarda caso, questa mostra della Crumb Gallery (in presenza), dedicata alle prostitute, e ci sarà tempo per vederla solo fino all’8 aprile. Si intitola ALL YOU CAN FUCK, dal nome dei bordelli a tariffa forfettaria, a disposizione di uomini in cerca di sesso a pagamento, che troviamo a Berlino e un po’ ovunque in Germania, dove la prostituzione è legale fin dagli inizi del Duemila. Quindici acquerelli su carta di riso, una tecnica dal tocco delicato, raccontano le molte storie che tutti i giorni si consumano con orrore sulla pelle di tante donne di etnie diverse, italiane, nigeriane, rumene, bulgare, ungheresi, in luoghi in cui, oltre al cibo, per 90-130 euro, puoi consumare le sex workers, ragazze costrette anche a decine di rapporti al giorno, dalle 16 alle 3 di notte. Una mostra politica e di denuncia, dunque, tanto che il bellissimo catalogo (collana NoLines) contiene un’inchiesta inedita sulla prostituzione, a firma della giornalista Rory Cappelli.

“Non c’è giudizio – scrive Cappelli – nel testo nel catalogo, pubblicato da Crumb Gallery in occasione dalla mostra. Eppure per Luperto il sesso a pagamento è sempre qualcosa di scippato, qualcosa che una donna non darebbe mai se non vi fosse costretta: dalla miseria, dalla propria storia personale, dal convincimento che sia libertà il disporre del proprio corpo come meglio si crede, dalla violenza del trafficking, la tratta delle donne, un fenomeno multiforme ed estremamente duttile nel cambiare tattica e metodo per non farsi individuare che sta dilagando come un cancro senza cura”.

In Italia le case chiuse non esistono più dal 1958 e in Europa troviamo vari modelli di regolamentazione e legalizzazione della prostituzione. Molte grandi città hanno quartieri a luci rosse e case d’appuntamento ma tutto ciò non ha aiutato a fermare il traffico sessuale. Un tema, quello della prostituzione, assai dibattuto, al quale Luperto lavora da più di un anno come fosse una cronista. Le sue opere sono come dei fermoimmagine che ci invitano a riflettere: c’è la storia de La bambina, appoggiata a una porta socchiusa, dove aleggia quell’innocenza dell’infanzia non ancora intaccata dalla crudeltà della vita. Ci sono le donne sedute al margine della strada in attesa, in Pausa oppure la sola sedia vuota a dominare in modo emblematico la scena. Ci sono le Nigeriane che camminano di spalle sullo sfondo di un cielo livido. C’è uno sguardo sugli Anni Trenta con tre donne in guepierre e seno nudo che nella posa ricordano l’intrecciarsi di molte raffigurazioni delle Tre Grazie, dei dipinti antichi.

La mia preferita? Decisamente ALL YOU CAN FUCK, di grandi dimensioni, in cui in un’aula dai toni sul rosso si raccolgono mezze nude una serie di ragazze, quasi sui banchi di una chiesa, pronte a iniziare la nottata. Trovo che in queste opere non ci sia angoscia nè cupezza, ma solo dolcezza, tanta sensualità, e un grande amore per le donne. Interessante poi come Luperto rappresenta il maschio: manca quasi sempre o meglio, lo troviamo di spalle, defilato, uno spettatore muto anche se di fatto ne è il vero protagonista. Bravissima la sound editor Francesca Sandroni che, con la sua installazione sonora, è riuscita ad evocare in maniera convincente questa presenza/assenza.

Complimenti allora a Adriana Luperto, salentina doc anche se poi ha cominciato a viaggiare: della Cina resta traccia indelebile, visti i richiami, evidenti in molta della sua arte, alla tecnica tradizionale dell’acquerello su carta di riso. Se all’inizio degli anni Novanta la troviamo a lavorare a scenografie, murales e allestimenti a Lugano, in collaborazione con una scenografa/attrice svizzera e una grafica portoricana, dal 2000 espone in diverse personali a Milano, cercando per le sue opere luoghi estranei ai circuiti espositivi: cortili di abitazioni, bar, locali notturni. Nel 2007 partecipa nell’ambito della Biennale di Venezia a 13×17 Padiglione Italia, iniziativa curata da Philippe Daverio e Jean Blanchaert (AA.VV., 13×17, 1000 artisti per un’indagine eccentrica sull’arte in Italia, catalogo Rizzoli). Tra il 2014 e il 2016 lavora a un ciclo di acrilici di grande formato, dal titolo La solitudine dell’amore, di cui la casa editrice VandAepublisher pubblica il catalogo nel 2017 (prefazione di Rory Cappelli di La Repubblica). Dal 2016 vive tra Lecce e Firenze e vogliamo citare, tra le ultime personali Milano nei miei occhi alla Libreria Bocca di Milano, Preferisco il rumore del mare, alla Tethys Gallery di Firenze, da milano al mare, all’Osteria Ronchetto di Lugano e Tra terra e cielo, alla Crumb Gallery.

Condividi: