Terzo lungometraggio per i due talentuosi fratelli D’Innocenzo, in concorso alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che forma insieme alle due precedenti pellicole (La terra dell’abbastanza e Favolacce) una vera e propria trilogia della solitudine e dell’incomunicabilità.

Ancora una volta la scelta ricade sull’attore romano Elio Germano che offre una formidabile prova attoriale.

Massimo Sisti è un dentista agiato che vive con la moglie e le due figlie in una graziosa villetta in provincia di Latina. Improvvisamente la sua vita viene sconvolta quando scopre nel suo scantinato una bambina tenuta prigioniera.

Fermando qui il nostro racconto, per non svelare la trama densa di avvenimenti, cerchiamo di ragionare sui temi dei due giovani registi, autori come sempre anche della sceneggiatura.

Le tematiche sui cui giocano i due cineasti sono l’incomunicabilità e il nichilismo (citando Friedrich Nietzsche: «[…] Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al “perché?”».

La scena iniziale ci può aiutare a interpretare alcuni concetti della pellicola: una carrellata ci svela un paesaggio desolato, ogni tanto qualche abitazione sparsa, un centro commerciale, fabbriche dismesse, il nulla. L’ambiente in cui vivono i protagonisti è desolante anche dal punto di vista umano ed emotivo, Massimo (Elio Germano) ha solo un amico e nessun contatto con il mondo esterno se non il suo lavoro.

In un mondo spogliato dai rapporti personali, dal concetto di comunità, sempre più latitante, nuotiamo in un mare digitale, di informazioni sempre più pressanti a cui forse non siamo in grado di offrire risposte.

Lo spaesamento del protagonista, la sua apparente schizofrenia (nel film osserviamo la sua immagine che si sdoppia in due inquadrature particolari: la prima riflessa nelle minestra a pranzo e la seconda mentre cammina all’esterno della casa) si manifesta con la confusione mentale, i dubbi nel comportamento, i vuoti di memoria, il distacco dalla realtà.

Elio Germano si scinde in più soggetti, le realtà si duplicano, le istanze della società che ci obbliga a determinati comportamenti giungono a noi come indicazioni contraddittore che non sappiamo controllare, forse è questo il messaggio dei due registi: Elio Germano è intrappolato in una zona grigia nella quale non riesce a gestire le sollecitazioni incoerenti che riceve dalla realtà quotidiana, l’unica via è la fuga, la perdita del reale.

Con un’escalation inesorabile la trama si svela lentamente giungendo all’esplosivo finale. Anche dal punto di vista visivo le invenzioni sono multiformi: i colori saturi con cui si descrive la famiglia, la scena della doccia con colori accesi e l’acqua, sempre presente, come elemento d’innocenza e volubile come il protagonista. I due cineasti romani citano frequentemente il cinema americano contemporaneo ma con uno sguardo autoriale personalissimo.

Una pellicola intensa, che ci sottopone a interrogativi inquietanti senza però offrire risposte definitive e complete, abbandonandoci all’uscita della sala emotivamente provati e smarriti.

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