Artemisia Gentileschi, l’arte di ribellarsi alle violenze
"Artemisia Gentileschi e il suo tempo", il libro di Spinosa. Una lettura per celebrare la giornata contro la violenza sulle donne.
"Artemisia Gentileschi e il suo tempo", il libro di Spinosa. Una lettura per celebrare la giornata contro la violenza sulle donne.
In questi giorni di fine novembre si è parlato molto e detto tutto sulla violenza sulle donne. Come sappiamo questa consuetudine trova origine fin dalla notte dei tempi, cosa che ha nei secoli dato il via a una successione di comportamenti e modi di pensare reiterati e giustificati anche a livello sociale.
Per citare brevemente alcuni esempi, se si pensa alla Roma e alla Grecia antiche, la necessità di garantire la discendenza in linea maschile poteva diventare motivo di controllo sul corpo femminile, secondo un’esigenza tipica, appunto, delle società di tipo patriarcale. Il pater familias era titolare di vita e di morte sui componenti del nucleo familiare.
Nel Medioevo, alle classi sociali più elevate premeva la salvaguardia dell’istituzione matrimoniale e del patrimonio familiare, a discapito esigenze individuali. Nel diritto medievale, infatti, il corpo femminile veniva indicato come un bene patrimoniale su cui il marito aveva autorità.
Dopo la Rivoluzione francese vi è stato un lieve cambiamento nella tolleranza verso la violenza contro donne. Tra le classi elitarie illuminate si diffusero nuovi modelli di mascolinità e di famiglia.
Questo va via via lentamente migliorando anche nei secoli successivi, creando un pensiero globale di – teorico – abbattimento delle diversità e di ricerca alla parità di genere.
L’apertura mentale in tal senso è andata però a braccetto con chi è rimasto legato a quella concezione atavica di dominio e possesso. In periodi più recenti, mentre una parte della società si allarma e denuncia, l’altra continua a sopraffare e arrogarsi il diritto di possesso. Per citare un banale fatto di costume, nella civilissima Inghilterra, negli anni ’60 del 900, ancora circolava un libricino in cui veniva spiegato come doveva comportarsi la mogliettina perfetta nei confronti del marito! Insomma, tra il dire e il fare…
Probabilmente oggigiorno manca l’esempio positivo, probabilmente in certi uomini manca la capacità di gestire l’abbandono, di affrontare il cambiamento e il nuovo inizio. Ed è così che la donna che ha deciso di non essere più di sua proprietà esclusiva diventa un soggetto da punire e da riacciuffare con la forza; anziché concentrarsi sul riprendersi in mano la propria vita e andar oltre, questi uomini deboli si concentrano sulla vendetta, sull’ossessione di quel che hanno perduto.
E così, nonostante i programmi TV, la pubblicità progresso, i convegni, le allerte, le case rifugio, negli anni duemila siamo ancora qui a soccombere e a piangere tante morti ingiustificate (nel mondo viene uccisa una donna ogni 10 minuti, normalmente da un partner o familiare).
Voglio parlarvi ora di una donna, vissuta nel ‘600, che a modo suo è riuscita a ribellarsi alla condizione in cui la società l’aveva obbligata. Dopo di lei migliaia di altre donne che sono riuscite a farlo, ma mi piace ricordare con affetto questa giovane spaventata che combatté sola contro i giganti.
Orazio Gentileschi (pittore) aveva affidato la talentuosa figlia Artemisia ad Agostino Tassi, affinché l’istruisse sull’arte di cui era maestro. Il Tassi approfittò di un momento di solitudine per stuprare la giovane ragazza. Visto che allora vi era la possibilità di ricorrere ad un matrimonio riparatore, Artemisia cedette alle lusinghe del Tassi e prese ad intrattenere rapporti intimi con lui nella speranza di un matrimonio (che mai arriverà perché lui era già sposato).
Appurato questo, il padre denunciò il Tassi e Artemisia fu costretta a dimostrare la veridicità dei fatti sottoponendosi a varie umilianti visite, rimanendo esposta alla curiosità morbosa di notai e medici. All’epoca le donne non venivano considerate testimoni attendibili, per verificare quindi la veridicità delle dichiarazioni rese, le autorità giudiziarie la sottoposero a un interrogatorio sotto tortura (la sopportazione di pratiche dolorose avrebbero supportato le parole della donna); le venne inflitto il cosiddetto tormento dei sibilli che consisteva nel legare i pollici con cordicelle che venivano lentamente strette, fino a stritolare le falangi. Artemisia avrebbe potuto rischiare di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura, ma la volontà di vedere riconosciuti i propri diritti le diede la forza di non ritrattare la deposizione. Vinse così il processo, anche se al Tassi fu inflitta una minima pena, ma per lo meno la giovane ebbe la soddisfazione di non lasciare che la cosa passasse tacitamente impunita.
Lo shock di questa vicenda si ripercuoterà sui suoi lavori successivi, in barba al mondo, divenne una talentuosa pittrice in un mondo dominato da artisti uomini.
Quel che trovo terribile, conoscendo la sua vicenda, è la scelta del curatore Costantino D’Orazio di rappresentare la violenza subita da Artemisia a 18 anni in una mostra immersiva, con immagini scenografiche e luci rosso sangue proiettate sul letto teatro dello stupro, mentre una voce recita con enfasi alcuni passaggi della testimonianza resa dalla donna al processo. Insomma, ancora una volta, in questo mondo Social, si è voluto spettacolarizzare un momento doloroso e intimo ai solo fini di attirare i visitatori. Per fortuna ci sono state persone che si sono opposte a tale decisione e hanno chiesto di rispettare l’artista, definendola in base ai suoi lavori anziché al suo stupro.
Per approfondire la sua arte vi consiglio il libro di Antonio Spinosa, Artemisia Gentileschi e il suo tempo.