Era il 21 luglio 1860 quando Luigi Finocchi, condannato a morte per avere ucciso la moglie a colpi d’accetta, veniva decapitato da Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio, in Piazza delle Erbe a Tarquinia. La storia è raccontata nel libro Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso, editore Arcana. Era un classico femminicidio, reato antichissimo che si perde nella notte dei tempi, ma il cui termine appartiene ai giorni nostri. Perché solo ora stiamo prendendo consapevolezza della necessità di dare un nome alle cose. Se non le nomini non esistono.

E allora chiamiamolo per nome: femminicidio

Dal 1860 ad oggi per fortuna alcune cose sono radicalmente cambiate. E in meglio: non esiste più la ghigliottina, neanche per il più efferato omicidio, perché viviamo in uno stato di diritto, e il diritto alla vita non può essere violato. E così, anche nel caso del reato più brutale e disumano, il colpevole è tutelato nel suo diritto alla vita, e ha diritto ad una pena che non sia contraria al senso di umanità e che tenda alla rieducazione del condannato. Dunque oggi Luigi Finocchi si sarebbe salvato, e avrebbe pagato la sua pena in prigione, con gli eventuali sconti per buona condotta. Invece alla sua giovane moglie, che nelle cronache del tempo viene definita semplicemente così, come se non meritasse neanche di essere ricordata, sarebbe toccata la stessa terribile sorte, anche se fosse vissuta oggi, cioè di venire uccisa ed essere nascosta in un canneto. Con la sola differenza che oggi avrebbe avuto la magra consolazione di essere menzionata col suo nome nelle cronache, sotto la voce femminicidio.

La vittima e il suo carnefice

Poco è cambiato dunque per la vittima di femminicidio dal diciannovesimo secolo ad oggi, perché, oggi come allora, una donna non si salva spesso neanche con una denuncia, e talvolta nemmeno se di denunce ne fa due. Certo esiste il codice rosso, si dirà. E’ vero. Il codice rosso è una corsia preferenziale per le denunce e le indagini che riguardano reati commessi contro le donne che subiscono atti persecutori, maltrattamenti o violenze. Eppure neanche questo è sufficiente a fermare la mano che impugna l’arma. Basti citare l’ultimo caso delle cronache, quello di Ventimiglia: Sharon Micheletti uccisa dal suo ex con almeno tre colpi d’arma da fuoco alla testa. Ora emerge che l’uomo era già stato in carcere per molestie alla sua ex moglie, e che era già stato denunciato dalla stessa Sharon Micheletti più di una volta. Non solo: sul profilo social dell’omicida comparivano con assiduità minacce e messaggi intimidatori che lasciano poco spazio alla libera interpretazione. Ma allora perché il codice rosso non è scattato? La procura di Imperia sostiene che gli atti dei Carabinieri non sembravano fare riferimento ad azioni di stalking, e che nonostante le due denunce la donna non sembrava perseguitata.
Ma come può una donna non apparire perseguitata a fronte di due denunce e di evidenti messaggi intimidatori pubblicati su profili social? Torna la domanda che ormai ripetiamo sempre più spesso: cosa deve ancora accadere prima che una donna sia messa sotto protezione e salvata dalla furia omicida?

Naturalmente non devono accadere ulteriori violenze perché una donna minacciata sia finalmente ascoltata dalle forze dell’ordine e protetta. E per ottenere questo bisogna che funzionino i servizi di supporto e che la legge sia applicata senza errori. Ma intanto quello invece che possiamo far accadere tutti noi è che se ne parli, sempre più spesso. Possiamo far accadere che ci indigniamo di fronte a una donna abbandonata alla sua solitudine, come nel caso di Sharon Micheletti; possiamo far accadere che vengano stigmatizzati certi giudizi sulle donne vittime di stupro, come nel caso di Silvia, la ragazza che sarebbe stata stuprata da Ciro Grillo, e che è stata criticata per avere denunciato lo stupro solo dopo otto giorni. Un episodio che di nuovo ci proietta nel passato, con lo stupro di Artemisia Gentileschi avvenuto nel 1612, che decise di denunciare solo dopo nove mesi dall’accaduto. Scelta che la espose ad una valanga di dicerie e pettegolezzi sul suo conto. E possiamo far accadere che non si dimentichi mai la violenza che una donna subisce. E che non si dimentichi mai il suo stesso nome. Perché non accada più, come nel XIX secolo, che dopo un femminicidio si ricordi nelle cronache solo il nome del colpevole, Luigi Finocchi, e non della vittima, a cui ci piace attribuire un nome di fantasia, Artemide, come la dea della caccia, figura femminile dotata di armi, quindi in grado di difendersi, e protettrice della verginità e della pudicizia. Perché ciò che non ha nome non esiste.   

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