Banana Yoshimoto, scrittrice giapponese di grande successo, nel nostro Paese ha conquistato una grossa fetta di pubblico con Kitchen e molti altri romanzi, interessando sia gli adolescenti sia gli adulti, ma con Su un letto di fiori in modo inconsapevole ha raccontato la ricchezza che può esserci nella scelta di adottare una bambina, perché non sempre i doni arrivano in modo naturale o secondo regole prestabilite. E’ accaduto così anche per Miki, trovata da neonata su un soffice letto di alghe in riva al mare, e per gli ¯Ohira, la famiglia che l’ha adottata.

Un romanzo che è viaggio ma allo stesso tempo ricerca e, spostarsi diventa necessario, anche con la sola scusa di documentarsi, come ha fatto l’autrice di una narrazione che lascia un certo retrogusto quasi amarognolo, ma allo stesso tempo dolciastro che solo la spensieratezza può infondere.

Banana Yoshimoto, dopo la morte del padre, decide di partire per l’Inghilterra e il suo viaggio inizia in quel momento anche per allontanarsi dal dolore, ma allo stesso tempo guardarsi dentro; e attraverso la piccola Miki recuperare un concetto di famiglia, anche quando la famiglia non è prettamente quella naturale.

Così diventano inevitabili delle considerazioni sulle motivazioni che ci portano a viaggiare.

Viaggiamo perché in realtà non siamo sedentari e dopo un po’ il nostro sguardo si stanca di vedere lo stesso orizzonte. Viaggiamo perché vogliamo in qualche modo attraversare il tempo, creare dei cambiamenti ed essere soggetti attivi di innumerevoli trasformazioni. Viaggiamo per incontrare chi è simile a noi in diversi luoghi, per poter riconoscere le diversità come elemento appagante del nostro Io.

Viaggiamo portando con noi quello che ci potrà servire e dentro energie positive sappiamo che un giorno faremo ritorno in quello spazio che chiamiamo casa, ma allo stesso tempo c’è come una necessità che ci spinge a lasciare un luogo perché la fame di città, mari, campagne, montagne possa essere soddisfatta.

Siamo sempre noi ma usiamo entusiasmi e parole per affrontare i cambiamenti, così dentro innumerevoli dialoghi prendono forma i suoni di tante voci di esseri umani, popoli fatti di lingue incomprensibili, dialetti che forse non riusciremo a capire fino in fondo. Viaggiamo per fermare un attimo dentro uno spostamento, scattare fotografie e girare cortometraggi di tutto quello che è movimento, però poi dobbiamo fermarci a riposare sotto le stelle, alcuni alloggiando in alberghi che possano riscaldare la nostra fame e farci bere del buon vino per poi prendere un quaderno sgualcito, un blocco di carta che non danneggi gli alberi per scrivere le nostre impressioni.

Il viaggio è l’unica metafora plausibile per decodificare il mondo, e non è poco

I legami non sempre sono quelli di sangue e delle volte diventano come dei tendini di un braccio che si allungano verso altre creature per accompagnarle in un percorso di vita.

Ecco perché esistono le adozioni

I giapponesi iniziarono a praticare l’adozione nel periodo Nara (710-794), in cui l’adozione era caratterizzata da regole che prediligevano i figli maschi. La ragione dell’adozione era quella di favorire i servizi della casa e della cura della famiglia, mentre nel periodo Kamakura (1185-1333) iniziarono le alleanze familiari, in cui era comune adottare figli maschi anche se la famiglia aveva già figli di sangue.

Ma l’adozione non è da considerarsi una scelta ben accettata in Giappone, poiché sono così strettamente legati ai rapporti di sangue.

L’adozione può essere vista come un atto di vergogna, ma non per Banana Yoshimoto che attraversando i vari periodi racconta l’adozione nella maniera più semplice, guardando questa realtà con gli occhi disincantati di Miki dentro un mondo quasi perfetto oscurato solo da ricordi, quasi presenze che appaiono per raccontarle il senso della vita.

Un senso della vita che ci riporta a una riflessione in generale sulle adozioni, ma allo stesso tempo focalizza l’attenzione sul nostro Paese, che, come sottolinea il report Ilga Europe 2020 sulla mappa dei diritti LGBTI in Italia, ancora non permette ai bambini si essere adottati da coppie omosessuali.

In oltre quindici Paesi europei il matrimonio e l’unione civile godono degli stessi diritti.

L’unione civile non permette infatti le adozioni e il riconoscimento diretto del rapporto di genitorialità, anche se alcuni schieramenti politici si stanno battendo per l’introduzione al matrimonio egualitario e l’estensione dell’adozione anche alle coppie non sposate e dello stesso sesso e alle persone single, come sostiene Più Europa da un po’ di tempo.

Il nostro è un Paese che sembra camminare, o meglio, zoppicare quando si affrontano battaglie sui diritti civili, basti pensare al clamore che ha accompagnato tutte le fasi del DDL Zan, quasi come se non appartenesse all’Europa ma al più piccolo tra i microcosmi.

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