Tutto quello che sta in mezzo è scomodo, un po’ come le mutande, soprattutto se si tratta di perizomi.

A passare in mezzo ai margini di due zone piuttosto rilevanti, i glutei dell’Italia, Firenze e Roma, è Grosseto, una città che sta in mezzo, a due ore da tutto, dove sono schiacciati i protagonisti del film Margini di Nicolò Falsetti e Francesco Turbanti. 

Il film è ancora più scomodo quando a stare in mezzo non è solo lo spazio, ma il tempo, l’età di mezzo, l’età giovanile, a qualche anno di distanza tra l’abbandono della comodità da pannolino, e i i vecchi genitori che pisciano fuori dal vaso per un’espressione che sta in tema dei panni di una madre che stira i vestiti ad un figlio che butta fuori di casa perchè non ha il coraggio di emanciparsi dalla dipendenza del compagno, anche quando quella economica ormai è frantumata.

E’ bello capire chi insegna e chi impara e quali ruoli si scambino.

Chi davvero è ai margini nel film, i giovani motivati o i vecchi tristemente realisti? Perché si dà per scontato una realtà scontata e quindi triste.

Entrambe le età, infanzia e vecchiaia, hanno abbandonato la responsabilità di come farla, ma quando sei giovane non puoi saltare la fila per il bagno, anche se è molto lunga, fai passare avanti gli altri perché hai ancora le energie per stare in piedi, ma a furia di stare in piedi anche i giovani si stancano di aspettare e la vescica resistente ad un certo punto scoppia.

Così gli insulti del mondo cadono su una band scalcagnata che diventa vandala perché il fine giustifica tutti questi mezzi che iniziano ad essere scomodi.

I protagonisti di Margini sono tra la fila e la trafila di cose da fare per mettere su un concerto punk a Grosseto: può mai essere un sogno irrealizzabile? Non è chiedere la luna e invece il film finisce per rappresentare la ridimensione del sogno di oggi, non supera più l’atmosfera, oltre le galassie dell’universo, ma è molto più vicina ad un ozono bucato da tappare con il dito che punta alla luna, un’unghietta tagliata.

Quello che passa nel film è la fatica, un’enorme fatica per un risultato così piccolo, è la metafora dei sogni del futuro. Non devono essere troppo lontani, perché i sogni sennò non ci arrivano, ma neanche troppo vicini perché sennò addio al concetto di sogno, un po’ irraggiungibile, un po’ folle, un po’ assurdo, sennò non si chiamerebbe così, ma qui non c’è nulla di così folle.

Tutto si è ridotto e il sogno più grande è avere abbastanza soldi per comprare dei biglietti ad una band punk americana che faccia pubblicità in una locandina, una toppa su un buco di provincia. 

E’ così avvilente la rappresentazione del nostro concetto di sogno ora? I film non fanno altro che appiattirli sulla realtà così inesorabile. Alla fine l’unica cosa bella non è essere riusciti a fare il concerto, ridimensionato ad un evento esaurito in una serata divertente, ma cantare una canzone in macchina a squarcia gola perché tanto non importa più cosa succede dopo, bruciasse la città, perché la palude di Grosseto tanto la spegne. E’ come se dovessimo settarci non più sull’ambizione ma su quello che ci rimane e provare ad ingrandirlo.

Ecco la domanda del film secondo me è quanto ha senso spingere? Meglio lasciare andare nella strada tortuosa di un lungo e ingarbugliato intestino, se poi tanto non cambia nulla, non hai manco coperto le spese, allora è meglio pensare in breve termine, quando hai appena il tempo di risvegliare i riflessi davanti alle mucche che ti passano all’improvviso, che senso ha provare a cambiare? Freni.

Grosseto è la metafora dell’impantanamento di uno Stato fermo nella burocrazia del comune che non ascolta i giovani ingenui sognatori, a cui non interessa nulla che sia comune, se non un caffè portato insieme ad una lenta morte dell’entusiasmo, senza zucchero.

Allora il giovane esce dalla metafora della sua condizione tappata di povero che ancora ci crede, che però si accontenta di qualsiasi spazio che possano dargli purché suoni e lo sentano, ma al limite va fuori dai margini come le note di musica classica dello spartito di Iacopo, in Francia.

Penso che questo film, a mio parere perfettamente riuscito nel rappresentare la non riuscita, abbia sancito la fine della fantasia giovanile del sogno, riflette il senso di arresa forzata che c’è soprattutto nel mondo della creatività. Accontentarsi è una grande virtù, per questo andate a vedere questo film per provarci a non accontentarvi, ma è una bella sfida e prima di sedervi sistematevi bene le mutande.

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