Jasminec’è un limite ai traumi che una persona può sopportare prima di mettersi a urlare in mezzo alla strada.

Jasmine è una donna elegante e mondana con un matrimonio fallimentare alle spalle. Decide di cambiare città e di andare a vivere con la sorella. Il suo aspetto è piacevole come il suo portamento, nonostante Jasmine sia annebbiata dai farmaci che assume per i sui disturbi psichici e per la sua depressione.

Jasmine non esiste, ma esiste la storia che la racconta, nel film Blue Jasmine scritto e diretto da Woody Allen nel 2013, esiste la sua storia così simile a quella di molte altre donne che invece esistono e conducono una vita a metà, divisa fra l’apparire sani e il gestire quel male oscuro chiamato depressione.

Come riporta il compendio per professionisti sanitari e studenti Argomenti di psichiatria, ogni anno i disturbi dell’umore colpiscono dal 2 al 25% della popolazione, con il disturbo depressivo maggiore che può interessare dal 2,6 al 5,5% della popolazione maschile e dal 6 all’11,8% di quella femminile.

I sintomi più frequenti sono importante calo del tono dell’umore, pensieri negativi e pessimistici, apatia, disperazione, perdita di interesse verso le attività della vita quotidiana.

Quello che, però, molto spesso appare all’esterno è che chi ne soffre sia solo svogliato, con pochi interessi, pigro e ciò porta non solo a sottostimare la sofferenza di chi vive questa condizione, ma a creare un ulteriore senso di colpa dei diretti interessarti che, per timore del giudizio sociale, cercano in tutti i modi di nascondere la propria sofferenza evitando, molto spesso, di ricorrere a percorsi di trattamento adeguati.

In situazioni come queste, lo stigma sociale finisce per diventare più importante dello stesso disturbo e apparire pigri e svogliati è quasi meglio dell’essere considerati malati.

Questo meccanismo va, quindi, ad agire su diversi livelli di vita e, pian piano, senza nemmeno accorgersene, ci si ritrova a vivere un ritiro relazionale, sociale, lavorativo da cui sembra impossibile uscire, proprio come accade alla protagonista del suddetto film.

Jasmine alla fine rimane sola. Come molte donne resta anche lei travolta da una vita difficile che si complica ancora di più quando si incontrano dei problemi psicologici di varia natura e che troppo spesso sono liquidati con dei farmaci. La farmacologia è importante, necessaria in alcuni casi e indispensabile in altri, al pari però di un percorso psicoterapeutico affrontato con un professionista del settore.

Non rimanere da soli, farsi aiutare riconoscendo il proprio problema sono il primo passo per evitare di isolarsi in una gabbia costruita dai propri disturbi. Un adeguato percorso psicoterapeutico è, infatti, un passo fondamentale per poter ripristinare il proprio equilibrio psicologico, aspetto non raggiungibile solo attraverso i farmaci, dal momento che questi vanno ad agire solo sull’aspetto sintomatologico e non sulle cause o sulla struttura di personalità del paziente.

In questa prospettiva, la terapia deve avere, in prima battuta, un carattere supportivo al fine di favorire un corretto esame della realtà, un rafforzamento dell’Io e il ripristino delle energie in modo da convogliarle verso elementi esterni.

A ciò è necessario aggiungere, poi, un aumento dell’autostima e imparare a sviluppare un senso di autoefficacia, senza escludere un coinvolgimento del sistema familiare di cui il paziente fa parte: solo cambiando le regole in cui è inserito è possibile arrivare a una vera svolta sul piano del benessere psicologico e sociale.

La salute mentale è, infatti, un diritto a cui  tutti dovremmo poter accedere, ma non sempre è possibile farlo da soli. Tutto questo ci dice che un miglioramento non solo è auspicabile, ma è altamente possibile, a patto di riconoscere di aver bisogno di aiuto e non provare imbarazzo nel chiederlo!

Ha collaborato Andrea Lupoli

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