Muhsin Hendricks era il primo imam dichiaratamente gay. Da venticinque anni era l’anima, il mentore, il difensore dei musulmanə africanə queer. È stato ucciso in un agguato a Città del Capo, il 15 febbraio scorso.
Sapevo che chiedere di parlare di questo a Shenilla Mohamed, Executive Director di Amnesty International Sudafrica, avrebbe significato scavare in un dolore anche personale: Muhsin non era per lei solo uno dei più coraggiosi e limpidi difensori dei diritti umani nella sua regione, ma anche un caro amico, un amico stimatissimo e amato.

Muhsin Hendricks

Nato a Città del Capo nel 1967, Muhsin – antenati indiani e indonesiani, portati in Sudafrica come schiavi dai colonizzatori olandesi – era cresciuto in una famiglia di stretta ortodossia islamica. Già a 5 anni aveva capito di non rientrare nel mainstream del gender, da adolescente ne aveva avuto la certezza: non era un “buon musulmano”, era un uomo attratto dagli altri uomini: uno di quegli omosessuali contro cui si scagliava nelle prediche del venerdì suo nonno l’imam, prefigurando sulle loro teste lo scatenarsi dell’ira di Allah, che li avrebbe condotti all’inferno, quando non prima a una giusta e terribile punizione in vita. Perciò, a un certo punto si era sposato Muhsin. Ci aveva provato a percorrere la via che gli indicavano nella moschea. Aveva 24 anni, era bello come un attore. La giovanissima moglie ne era molto innamorata: ma sette giorni prima del matrimonio lui non se l’era sentita di ingannarla e l’aveva messa a parte dei suoi amori. Il matrimonio era comunque durato sei anni, avevano avuto tre figli. 

Nel 1996 Muhsin divorzia e si rifugia in Pakistan, dove aveva svolto i suoi studi universitari in Diritto Coranico. Un amico si offre di ospitarlo in una stalla facendone sloggiare i cavalli, e lì Muhsin digiuna, prega e medita per 80 giorni. Fino a quando non scorge un filo rosso e, seguendolo, capisce di trovarsi finalmente a suo agio nella relazione con Dio, con l’Islam e con se stesso.

Quando rientra a Città del Capo fa coming out (la cosa più difficile fu dirlo a sua madre) e fonda una comunità, The Inner Circle, dove trovano rifugio e dialogo quanti vivono nel dolore e nel trauma di non vedere conciliata la fede in Allah con la propria omosessualità.

“Dio non è omofobico”

Dio non è omofobico”,  diceva Muhsin. E combatteva l’omofobia col Corano.
Perché un dio compassionevole non può condannare persone che lui stesso ha creato in questo modo, per cui la sessualità non è una scelta ma un dato di fatto, spiegava. E aggiungeva: “Nessuno ha il monopolio della religione

Nel 2007 il Muslim Judicial Council locale lo dichiara “fuori dall’ovile” dell’Islam per essere apparso nel documentario Jihad for love. Nel 2011 sposa il suo fidanzato (la legge sudafricana lo consente dal 2006). Nel 2022 è il protagonista di The Radical, in cui si raccontano la sua urgente e incrollabile fede e il suo attivismo religioso e sociale. Dal documentario, emerge una personalità compassionevole e conciliata col mondo, intorno alla quale riusciva sempre a formarsi un’oasi di pace, di comprensione, perfino di allegria.

La parola imam significa guida: e Muhsin era il leader di una comunità di emarginati che gli chiedeva di comprenderli, proteggerli e portare avanti la loro causa. Muhsin offriva loro parole nuove, reinterpretando i testi sacri alla luce di una teologia che metteva al centro l’idea di un Dio compassionevole, capace di accogliere l’amore in tutte le sue forme. “Dio non ci ha creati per condannarci” ripeteva spesso. E quell’affermazione, in un contesto in cui le scritture sono spesso utilizzate – alla stessa stregua che in altre religioni – come strumento di oppressione, era un atto rivoluzionario.

“Non mi fa paura la morte, mi fa più paura non essere me stesso”

Era oggetto di insulti pesanti e di minacce di morte, in un paese che ha un tasso di violenza fra i più alti nel mondo. A chi gli chiedeva se avesse paura, Muhsin rispondeva regalando quel suo inconfondibile sorriso dolce e al tempo stesso allegramente ironico: “Ho più paura di non essere me stesso che della morte. Ho vissuto per troppo tempo nello stato di chi nasconde se stesso, ho trovato serenità ed equilibrio, e anche la gioia di vivere, solo quando sono riuscito a mettere in connessione la mia identità con la mia fede in Allah. E con questo, ho trovato anche la felicità di riuscire ad aiutare gli altri.

Si esponeva. Dialogava con tutti. Dicono che sia stato ucciso sulla via del ritorno dopo aver celebrato un matrimonio interreligioso, non approvato dall’Islam più ortodosso. Ma di questo non si riesce ad avere conferma certa. La polizia ad oggi non ha indicato alcuna pista, continua a dichiarare di non conoscere le motivazioni del suo assassinio.

Il momento dell’assassinio

Il dolore e la paura della comunità LGBTQ+

In questo momento la sua comunità LGBTQ+ è chiusa nel dolore e nella paura. Il sito web di Al-Ghurbaah Foundation, la fondazione con la quale Muhsin teneva incontri, preghiere, corsi e seminari nell’ambito di quella teologia che la stampa internazionale ha sbrigativamente definito teologia queer, è “momentaneamente non raggiungibile”. Sabato 8 marzo, nel corso dell’iftar del Ramadan, si è tenuta una cerimonia di commemorazione di Muhsin nella Open Mosque di Città del Capo (una moschea inclusiva, che crede negli scambi culturali e nella parità delle donne, aperta a tutti come dice il nome, ma che tiene nel suo sito oggi a marcare una distanza istituzionale dalla comunità gay). “Avevo un grande rispetto per lui e quello che ha fatto, è stato davvero sorprendente per l’Islam. Ha proposto una sorta di nuovo focus sull’Islam. Voleva – e io sono pienamente d’accordo – un Islam incentrato sulla compassione”, ha detto il presidente della Moschea. Ma più della metà delle sedie era vuota, e non si sono visti nè i familiari di Muhsin né i componenti della sua comunità, che pure erano stati espressamente invitati a partecipare.

Con Shenilla Mohamed (accomunata a Muhsin anche dall’essere cresciuta in un contesto religioso rigidamente ortodosso, nonché dall’amore per il Pakistan – dove lei è nata – e il fatto di parlare entrambi la lingua urdu) lascio da parte le domande che pure vorrei farle sul suo rapporto personale con Muhsin.

Shenilla Mohamed (by her courtesy)

Shenilla, so che hai chiesto una legislazione speciale per proteggere chi promuove i diritti umani nella tua regione, cosa intendi esattamente?
I difensori dei diritti umani in Sudafrica affrontano continuamente sfide al loro lavoro – minacce, intimidazioni, uccisioni, procedimenti giudiziari ingiusti e cyberbullismo – anche da parte delle istituzioni. Spesso non denunciano per paura di rappresaglie. Il Sudafrica non dispone di una legislazione specifica o di una politica pubblica per la protezione dei difensori dei diritti umani e le autorità non hanno mai creato uno strumento che registri il numero di minacce e attacchi contro di loro. La responsabilità della repressione di questi attacchi spetta allo Stato. Come Amnesty International Sudafrica, chiediamo al governo sudafricano e al presidente Cyril Ramaphosa di riconoscere i difensori dei diritti umani e il loro lavoro, e di impegnarsi a sviluppare e adottare una legislazione nazionale per la loro protezione entro la fine del 2025.

Eppure la Costituzione post-apartheid del Sudafrica è una delle più liberali e progressiste al mondo, poggia sulle passate sofferenze del Paese e su un solido corpus legislativo. Come è possibile che i suoi principi vengano così facilmente sopraffatti?
Come nazione con una storia di apartheid, il Sudafrica continua a lottare con il razzismo in tutte le sue forme, ma i membri della comunità LGBTQ+ devono ancora affrontare discriminazioni e oppressioni. Il Paese continua a confrontarsi con alti livelli di violenza di genere, causati dalla disuguaglianza di potere tra i sessi e da norme, atteggiamenti e credenze patriarcali profondamente radicati. Questi fattori sociali consentono e perpetuano la violenza nonostante le protezioni costituzionali in vigore.
La sfida infatti non risiede nella legislazione in sé ma nella sua attuazione, nell’incapacità dello Stato di addebitare ai colpevoli le loro responsabilità. Le esecuzioni extragiudiziali rendono evidente quanto sia urgente la necessità di far rispettare lo Stato di diritto. Per sostenere i principi della Costituzione, è fondamentale che gli autori di questi crimini siano ritenuti responsabili e affrontino la Giustizia attraverso processi efficaci, efficienti ed equi.

Muhsin era anche andato negli anni scorsi in Kenya, per aiutare la comunità LGBTQ+ oppressa da una legge contro l’omosessualità. Chi sta combattendo ora in Africa per le comunità queer e con quali strumenti a disposizione e quale consenso della popolazione?
Negli ultimi anni si è assistito a un’impennata della legislazione discriminatoria nei confronti delle persone LGBTQ+ in tutta l’Africa. Nel 2024, Amnesty International ha pubblicato un documento informativo su 12 Paesi africani, documentando come i sistemi legali siano stati sempre più utilizzati per colpire e discriminare sistematicamente le persone LGBTQ+. Questo documento include casi in cui le leggi sono state impiegate in modo eclatante per perseguitare ed emarginare i membri della comunità LGBTQ+, evidenziando una tendenza angosciante all’utilizzo dei meccanismi legali come strumenti di oppressione. In Africa, 31 Paesi criminalizzano ancora l’attività sessuale consensuale tra persone dello stesso sesso, nonostante questo sia in contrasto con gli standard stabiliti dall’Unione Africana e dai diritti umani internazionali.

Si otterrà giustizia per Muhsin?
Abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere, per ogni caso come questo, un’indagine rapida, efficace e approfondita sull’omicidio. Il sistema giudiziario penale deve ritenere il colpevole responsabile e agire come deterrente contro crimini così orribili.

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