Cosa ci vuole per sapere il significato di una parola? Nulla, basta il vocabolario. E allora apriamolo:

femminista s. m. e f. e agg. [der. di femmina] (pl. m. -i). – Fautore o seguace del femminismo: le rivendicazioni delle f.; proclamarsi femminista. Come agg., del femminismo, delle femministe: il movimento f.; i comitati f. per il suffragio elettorale delle donne; una manifestazione femminista.

Così dice Treccani, ed è già notevole vedere che contempli la possibilità “m. e f.” e che descriva la persona designata dalla parola con un aggettivo invariante e uno maschile: fautore. Non sembrerebbe essere particolarmente problematico essere un uomo femminista. Seguiamo il vocabolario e vediamo che vuol dire femminismo:

femminismo s. m. [der. di femmina]. – Movimento di rivendicazione dei diritti delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne.

La definizione di Treccani è un po’ pleonastica e vaga, ma forse da un vocabolario non ci si può aspettare di più. Anche perché un vocabolario permette solo una fotografia dello stato delle cose nella lingua, che però è viva e modifica i significati grazie all’uso delle parole che fanno i parlanti. E qui, nel caso di femminista – e anche di femminismo – le cose si complicano parecchio rispetto a quello che dice Treccani. Linguisti e linguiste mi dicono da tempo che il significato di una parola è l’uso che se ne fa: per scoprire il significato di femminismo, di femminista, dovresti usarle e farle usare, ma sembra proprio essere questa la cosa più difficile. Pochɘ vogliono usare quelle due parole.

L’uso di femminista, come lo registro nei fatti nella mia attività di ricercatore, divulgatore, formatore, non è affatto quello raccontato dal vocabolario. Per certi versi sembra riemergere – o meglio riaffiorare, perché forse non era mai scomparso – l’uso peggiorativo della parola: come un secolo e mezzo fa, la parola femminista o il sostantivo femminismo sembrano indicare una malattia, una degenerazione, un degrado da una condizione di normalità. Allora il femminismo era la mancanza, nei soggetti maschi, di virilità nel corpo e nei comportamenti; adesso è l’adesione – accertata o ipotizzata – a una visione del mondo che si crede parziale, fanatica, superata, discriminante. Si è passati da una patologia fisica a una sociale, ma la sostanza rimane quella: non si riesce a diffondere nel senso comune il vero significato della parola, che sia femminismo o femminista.

I libri di scuola, di ogni ordine e grado, non raccontano le lotte delle donne per la parità, non raccontano le lotte per i diritti da parte di gruppi discriminati per il genere; non sono equilibrati nella presenza di genere, non raccontano di quante discipline hanno fatto passi da gigante grazie a chi è statɘ discriminatɘ. Al massimo, riquadri rosa, note a piè di pagina, schede informative in spazi che pochissimi leggeranno. I risultati si sanno: tra moltissime ragazze, femminista è un insulto; tra moltissimi ragazzi, femminista è un insulto – verso le ragazze, ovviamente. Tra loro, è una vera e propria mostruosità. Oppure una strategia, un modo per dissimulare, per nascondere intenzioni, per farsi notare.

I femminismi sono prima di tutto pratiche di liberazione, e come tutte le pratiche non sono facili da raccontare: prima, le devi fare o vederle fare. Poi sono nate molte teorie, ma che senza quelle pratiche non hanno alcun motivo di esistere. Anche – forse, soprattutto – questa storia è la meno raccontata, la più travisata: tra chi non è più ragazzo o ragazza la parola più spesso usata verso i femminismi è ideologia, mostrando contemporaneamente che chi l’adopera non conosce due cose: il significato di ideologia e il significato di femminismo.

Io credo, a riguardo, queste poche cose che seguono. Come filosofo ho il problema di volermi occupare di problemi sociali dal punto di vista delle loro condizioni di possibilità. Mi meraviglia che certe cose accadano, e non come accadono; di questa meraviglia ne faccio domande che chiedono conto delle possibilità, non delle realizzazioni. A queste pensano già altri e altre.
Femminista è chiunque – pur in modi diversissimi – lotta per un esercizio paritario dei diritti partendo dal genere, e per la rimozione di qualsiasi ostacolo impedisca tale possibilità; filosofo femminista è quindi colui che s’interroga sulle condizioni delle disparità partendo dal genere, lotta per la loro rimozione e di questa domanda e di questa lotta fa la sua forma di vita. Questa interrogazione può essere fatta pensando, scrivendo, agendo – non è importante; è importante continuare a porre domande, con la mente, con il linguaggio, con il corpo.

Molte chiacchiere insistono sulla necessità di cambiare parola, perché quello che comincia con femm- sa già di dispari, di parziale, di una parte sola, di discriminatorio. Ecco perché è tanto importante la pratica del femminismo: è questa a farti capire che per riequilibrare qualcosa di non equilibrato devi essere parziale, devi agire solo là dove serve e non dappertutto. Questa azione deve essere di parte, perché è questa parte che ha bisogno di spazio, parola, possibilità, politica – l’altra ne ha troppa, sta qui la disparità. Porsi fin dall’inizio in maniera paritaria è ipocrita: non si parte da una situazione pari, quindi a fare ugualitarismo o come altro si vorrebbe chiamarlo non si fa che continuare la disparità. Oltre a cancellare una storia di pratiche di liberazione, emancipazione, lotte di almeno tre secoli, dalla quale imparare ancora molto.

Femminista può essere il nome di molte cose, ma è soprattutto una visione del mondo diversa dall’esistente, necessaria finché questo esistente sarà dispari per qualcunɘ.

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