“La statistica è quella scienza secondo cui se siamo in due e io ho mangiato due polli e tu nessuno, in realtà abbiamo mangiato un pollo a testa”. Questa celebre battuta, per quanto totalmente semplicistica, ci aiuta a introdurre con un sorriso, il tema di questo articolo: ciò che molti analisti dei dati ci stanno raccontando da un po’, facendoci riflettere su una realtà che crediamo oggettiva e scevra di pregiudizi, ma che invece non lo è.

Dietro un numero raccolto, o non raccolto, dietro la modalità con cui viene selezionato, elaborato e infine divulgato, c’è sempre chi decide preliminarmente queste operazioni. Ed è un essere umano, che per decidere ovviamente utilizza tutto il suo bagaglio culturale, sociale ed emotivo. Compresi bias e pregiudizi.

L’illusione che i numeri siano uno specchio oggettivo della realtà e scevro dalle sue strutture e soprattutto sovrastrutture è, appunto, un’illusione. Ma la nostra mancanza di conoscenza ci porta a pensare che, quando vediamo grafici e tabelle, o quando leggiamo numeri in un articolo a sostegno di qualche tesi, per la sola presenza di quei numeri, quell’articolo, quella tesi, quella proposta, sia automaticamente più sicura e autorevole.

Ecco perché si sta diffondendo nel mondo degli analisti la consapevolezza della necessità di analizzare il dato sempre più in profondità e di divulgare il fatto che anche i dati possono essere influenzati da bias e pregiudizi di chi li raccoglie.

Chi sceglie e gestisce i dati su cui si basano le future scelte politiche?

Una questione che diventa sempre più urgente con l’avanzare nelle nostre vite dei servizi e delle questioni affidate all’Intelligenza Artificiale. Strumento sofisticatissimo, basato interamente su un’unica materia: i dati. E che succede se i dati su cui basa le proprie decisioni l’algoritmo mancano, o ignorano le necessità specifiche della metà dell’umanità, o sono inficiati da discriminazioni e pregiudizi culturali e sociali?

Il Data Feminism, nasce per sollevare queste questioni e proporre possibili soluzioni. Il femminismo dei dati consiste appunto nell’applicare le teorie femministe anche al mondo della raccolta ed elaborazione dei dati in modo da scardinare i pregiudizi di genere che si portano dietro e, quindi, ancora una volta, avere una rappresentazione più giusta e inclusiva della realtà.

Sì, perché il punto è proprio questo, ed è sempre più urgente: oggi viviamo in un mondo in cui siamo sommersi da dati, ne produciamo in continuazione e li usiamo in continuazione. Ci sentiamo sopraffatti dai numeri, ma da quali numeri?

Perché, se si va ad approfondire, molti numeri che sarebbe necessario avere, in realtà non ci sono. I dati ci sommergono, ma alcuni dati mancano. Basti pensare, per quanto riguarda il nostro Paese, alla mancanza di dati disaggregati che riguarda l’applicazione della 104 portata alla luce recentemente da un’inchiesta dell’Associazione Luca Coscioni.

In Italia, a farsi carico della necessità di scavare a fondo nel mondo dei dati e di cambiare prospettiva per rendere i numeri più inclusivi e quindi soprattutto più aderenti alla realtà in una prospettiva di genere, tra gli altri, c’è Donata Columbro, analista e giornalista che sul suo canale Instagram prima e attraverso una newsletter poi, si è imbarcata in questa impresa.

Un libro per spiegare perché il femminismo dei dati è necessario

Le sue lezioni di dati sono state poi raccolte nel libro Ti spiego il dato, una cassetta degli attrezzi per chi vuole capire di più su questo argomento ormai fondamentale per comprendere la realtà come viene rappresentata.

Donata Columbro si definisce, tra le molte altre cose, una femminista dei dati e spiega benissimo il femminismo dei dati, rispondendo a tutte le domande, tra le quali la più frequente, ovvero perché il femminismo dei dati è necessario.

E la risposta è che è necessario perché non c’è giustizia senza dati. Il femminismo applicato al mondo della raccolta e dell’analisi dei dati può farci vedere le cose in modo diverso, un modo che anche nel mondo dei numeri non è stato mai preso in considerazione. Poiché i dati non sono di per sé entità oggettive, ma frutto di lavoro umano, possono essere fondamentali per combattere le discriminazioni ma al tempo stesso, se non sono raccolti ed elaborati nel modo giusto, possono invece aumentare i pregiudizi e le diseguaglianze.

La prima cosa da tener presente per un approccio cosciente ai dati è che c’è chi decide cosa contare e come contare, e anche cosa ignorare. Anche il femminismo dei dati punta la luce su chi ha il potere di decidere quali dati acquisire e analizzare e anche in questo campo, il potere di decisione è sbilanciato, in mano al genere maschile.

Questo vuol dire che tanti dati che sarebbero necessari per smascherare discriminazioni o pensare a strategie e progetti per rendere la realtà più equa, a misura di donna non solo di uomini, non vengono nemmeno presi in considerazione. Anche perché, dietro le raccolte dati c’è un processo decisionale che riguarda innanzitutto lo stanziamento di risorse a disposizione.

Se quindi a decidere è prevalentemente un uomo bianco etero con i propri bias, più difficilmente penserà di prendere in considerazione progetti di raccolta dati opportunamente complessi e dettagliati, che riguardano per esempio le mille forme della discriminazioni di genere, lo sbilanciamento dei carichi di lavoro famigliari, la mancanza di asili nido, la già citata questione sull’interruzione di gravidanza, il rapporto tra maternità e gender pay gap o tra maternità e disoccupazione, i dati specifici necessari alla medicina di genere, e potremmo fare moltissimi altri esempi di una situazione che si aggrava poi quando alla questione di genere si affiancano le questioni razziali, quelle relative all’abilismo ecc. ecc.

Un mondo intero di iniquità ed esclusione che una raccolta dati decisa da uno sguardo altro potrebbe aiutare a scardinare e invece, spesso, contribuisce ad alimentare.

Perché il punto è che sui dati si basano le scelte politiche, le decisioni su cosa fare con il denaro pubblico in termini di strategie, sostegni, investimenti ecc. Ecco perché a decidere quanti, come e dove raccogliere i dati, dovrebbero esserci più donne, o comunque più persone coscienti che i numeri o ancor di più, la loro mancanza, riflettono pregiudizi culturali che è ora di scardinare, anche rendendo i dati uno strumento più equo.

E’ il momento di mettere a disposizione della costruzione di una società più giusta numeri che mettano in luce ciò che, al momento, non lo è affatto.

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