Avevo davvero labili ricordi della serie americana Columbo (Colombo), andata in onda a partire dalla fine degli anni ’60 e con Peter Falk come protagonista. Ricordavo ovviamente le fattezze del tenente, i suoi modi buffi e informali, quella tendenza a fare domande con l’aria di chi non stesse chiedendo cose importanti per poi inchiodare il criminale di turno cogliendolo di sorpresa.

Ricordavo anche che aveva la tendenza a costruire ingegnose trappole per estorcere confessioni ai colpevoli dei delitti su cui stava indagando. Ma, a parte l’affetto di questa frequentazione infantile, non avevo mai riflettuto molto sul suo personaggio. Fino a quando non mi è venuta l’idea di rivedere qualche vecchia puntata (complici gli shorts che apparivano sui social media negli ultimi tempi e che hanno ridestato la mia curiosità).

Ci sono due elementi importanti che all’epoca non potevo cogliere e che oggi mi hanno invece divertito moltissimo. Il primo è che l’umiltà del personaggio, la tendenza ad apparire come uno poco intelligente e rozzo, quel continuo riferirsi a faccende quotidiane e irrilevanti (i riferimenti alla moglie, al cibo, alle vacanze ecc.), nonché le sue domande poste con apparente noncuranza, sempre come un secondo pensiero, mi hanno ricordato da vicino Socrate.

Il filosofo ateniese che andava in giro trasandato, si proponeva come discepolo ignorante per smascherare con domande apparentemente banali l’arroganza dei sofisti. Anche Socrate era solito introdurre le sue considerazioni con l’aria di chi non aveva ben capito e cercava solo chiarimenti: ma poi finiva per far crollare il castello di carte del suo interlocutore. E anche Socrate cercava, come noto, di far emergere la verità attraverso l’errore e la menzogna.  

La verità di Colombo

Certo, la verità di Colombo non era una verità metafisica ma giudiziaria, ed era legata sì ad una grandissima capacità di osservazione e al rigore logico ma soprattutto ad una profonda conoscenza dell’animo umano. Nell’episodio pilota (Prescription Murder), Colombo dice una cosa che mi ha sempre colpito: il più astuto assassino è sempre un principiante, uno che ha solo un’occasione per commettere il suo delitto, mentre chi indaga da anni sui crimini è un professionista che conosce bene come vanno queste cose, ha una casistica molto ampia da cui attingere.

E qui si inserisce la seconda considerazione che mi ha suscitato rivedere gli episodi della serie: il suo substrato politico. Colombo è un rappresentante delle forze dell’ordine, dunque dovrebbe rientrare nella casistica di personaggi conservatori, se non reazionari (riflessioni che sono state fatte nel corso degli anni per altri giustizieri come Batman). Ma è interessante notare come l’epoca in cui la serie TV fu elaborata fosse un’epoca di grandi tensioni sociali, l’episodio pilota uscì alla fine degli anni ’60 e fu probabilmente influenzato dal clima rivoluzionario, progressista, utopico dell’epoca.

Il rapporto tra l’investigatore e gli assassini che smaschera

Questo è chiarissimo nel rapporto che si instaura tra Colombo e gli assassini che smaschera: essi appaiono rappresentanti di una borghesia ricca, tronfia e soddisfatta di sé. Nei primi tre episodi Colombo si scontra con uno psichiatra blasonato che cerca di fermarlo utilizzando le proprie influenze, uno scrittore di successo, un ricco investigatore privato, un generale… Di fronte a questi personaggi Colombo appare sempre come un underdog, un italo-americano tarchiatello, dall’apparenza sgradevole, trasandato e chiacchierone. Finisce per essere regolarmente sottovalutato da questi rappresentanti dell’élite che vengono così colti di sorpresa dalla sua intelligenza e dal suo fiuto.

Sarebbe interessante confrontare questo schema politico – figlio di un’epoca di grandi speranze di cambiamento – con quello che è accaduto al poliziesco negli ultimi decenni. In Italia ci sono state serie di successo come Il maresciallo Rocca e Don Matteo. Non è solo il fatto, per altro sintomatico, di avere come personaggi principali un carabiniere e un prete. Si è infatti spesso osservato come in tempi di crisi ideologica i protagonisti delle storie mainstream diventino figure rassicuranti (medici, giudici ecc.).

Il problema è che questi personaggi bonari, dal grande calore umano non hanno più una valenza politica intrinseca. È chiaro che il riferimento ideologico di queste serie è un ceto medio in cerca di rassicurazione. E lo stesso vale per un personaggio come Montalbano di Camilleri che pure, a volte, lascia trasparire tracce di un passato di impegno politico radicale.

È altrettanto significativo che per creare un personaggio che rompa con questo schema siamo arrivati a Coliandro, un anti-eroe in tutti i sensi: non è intelligente, non ha fiuto, anzi sbaglia regolarmente le proprie valutazioni, oltre a scadere spesso in considerazioni razziste, misogine e omofobe. Purtroppo l’effetto di questa serie non è la messa in discussione di quello schema generale ma la sua conferma in negativo. A risolvere i casi sono sempre gli altri membri della sua squadra – spesso donne intelligenti – ma l’effetto finale è quello di farci accettare il personaggio di Coliandro come un amico, le cui pulsioni reazionarie vanno giustificate come parti della sua umanità.

C’è un abisso tra il proletario Colombo e la parodia patriarcale e razzista di Coliandro: quello che separa un’epoca in cui il senso di colpa dei media spingeva a costruire personaggi che rappresentavano un punto di vista opposto rispetto a quello della classe dominante e un’epoca in cui il massimo che si può fare è prendere bonariamente in giro il fascismo degli spettatori, strizzando loro un occhio di rassicurante complicità.

Che si possa capire qualcosa della struttura sociale dalla struttura narrativa dei polizieschi fu un’intuizione di Adorno e di Kracauer che scrisse un saggio, Il romanzo poliziesco, Editori Riuniti, di cui consiglio vivamente la lettura.

Perché, come diceva Pascal, ciò che ci diverte, ci di-verte, cioè ci allontana dalla verità che invece si cela nella sua essenza incompresa.

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