Oh no! L’ennesima recensione sull’ultimo film di Yorgos Lanthimos, “Povere creature!”.

Attenzione! Non intendo parlarvi di tematiche già ampiamente discusse, come la sovversione della sessualità patriarcale, o fornire un’interessante chiave di lettura sull’emancipazione della protagonista, ma vorrei approfondire con voi un altro aspetto, estremamente importante per la Settima Arte, ossia di ciò che unisce in sintesi l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo (cit. di Ricciotto Canudo, tra i primi critici cinematografici).

“Povere creature!”, le candidature agli Oscar, il successo in sala

Procediamo con ordine. Il film ha vinto il Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia ed ha numerose candidature per i prossimi Oscar, tra cui: miglior fotografia, miglior scenografia, migliori costumi, miglior trucco e acconciatura. Non solo. Il film, oltre alla critica, sta avendo un notevole riscontro anche nelle sale cinematografiche.

Questi due indizi già dimostrano la levatura di una pellicola studiata meticolosamente in ogni singola inquadratura e che riesce a mantenere per tutta la sua durata (due ore e mezza circa) una notevole coerenza su concetti, quali il femminismo e il patriarcato, che hanno attratto l’attenzione del pubblico.

A prescindere dal gusto personale, Lanthimos ha dimostrato l’indiscutibile capacità di miscelare topos classici e ben collaudati a temi di estrema attualità, rafforzandoli con un sapiente uso della tavolozza e creando ambientazioni che vanno aldilà del semplice citazionismo.

Il tema del viaggio, da sempre vincente dal punto di vista narrativo (almeno dall’Odissea in poi), ha lo scopo di descriverci un percorso di formazione, in questo caso quello che trasforma Bella Baxter (interpretata da Emma Stone) da povera a magnifica creatura, emancipata sia dalle finalità dell’esperimento del padre-creatore-che-vince-Dio, il professor Godwin Baxter (Willem Dafoe), sia dal controllo che vorrebbero imporgli amanti e potenziali mariti.

L’ambientazione fintamente vittoriana del film

Lanthimos, probabilmente per enfatizzare la connessione tra passato e presente di certe strutture famigliari e sociali, sceglie un’ambientazione fintamente vittoriana. È la Londra della seconda metà dell’Ottocento, patria della morale e del pudore, della prima Esposizione universale, delle innovazioni industriali e scientifiche, degli esperimenti alla Frankenstein di Mary Shelley; ma è anche il mondo futuribile descritto in Metropolis di Fritz Lang, unito al decadentismo dei Preraffaelliti e al Postumanesimo, tutto protesi ed ibridi, che avrebbe conosciuto la sua esplosione nell’arte anglosassone di fine Novecento.

In questo luogo immaginario, sia nello spazio che nel tempo, scorrono le pesanti cicatrici di Godwin Baxter, deformato come in un ritratto di Francis Bacon, e corrono le creature del bestiario di Hyeronimus Bosch (o di Benito Jacovitti, se preferite), tra il giardino e il salotto.

Il tutto, sorprendentemente c’è da dire, avviene attraverso un concentrato di sesso (tanto e come da tanto non si vedeva al cinema), privato di ogni erotismo e sentimento, in perfetta contrapposizione al senso del pudore descritto come strumento di vigilanza e di controllo.

Il sesso, dopo essere scemato (non a caso) per una breve pausa intellettuale di Bella (quella coincidente all’incontro con la filosofia cinica di cui si nutrono alcuni compagni di viaggio), ritorna di nuovo prepotentemente in un’ambientazione diversa: Parigi, il Modernismo, la Belle Époque che fa il suo ingresso attraverso i Boulevards dell’urbanista Haussmann e i bordelli più celebri d’Europa.  

“La femme est obligée de choisir entre acheter un homme, ce qui s’appelle le mariage, ou se vendre aux hommes, ce qui s’appelle la prostitution”. (“La donna è costretta di scegliere tra vendersi ad un uomo e si chiama matrimonio, oppure vendersi agli uomini e si chiama prostituzione”, Victor Hugo).

Dal momento in cui Bella decide di proseguire il suo processo di emancipazione scegliendo il postribolo gestito da Madame Swiney, siamo immersi in una ambientazione che si nutre dell’arte di due immensi, quali Edgar Degas e Henry de Toulouse-Lautrec.

Se Degas ha attraversato l’Impressionismo descrivendoci la quotidianità del prima- e del dopo-lavoro delle prostitute, osservandole asetticamente con la freddezza dello scienziato che esamina le cavie in laboratorio, Toulouse-Lautrec, al contrario, ci ha offerto uno spaccato di vita di quei luoghi da chi li viveva, li frequentava attivamente e ne condivideva gioie e dolori (morì di sifilide).

L’ enfant terrible di Montmartre ha ripagato il proprio debito nei confronti del celeberrimo L’assenzio del suo illustre collega creando una nuova grammatica del colore e della composizione, la stessa che nel film rivediamo attraverso i colori acidi, il trucco esagerato, le luci ad illuminare corpi e volti dal basso verso l’alto (come se fossero esposti in delle vetrine), il rapporto tra Bella e un’altra prostituta, la prospettiva deformata e il bestiario (questo, tutto umano) fatto di personaggi equivoci.

Toulouse-Lautrec: “Al Moulin Rouge”,1892, Wikimedia Commons

Infine, la locandina del film: il volto di Bella e tre colori fondamentali per la pittura, quali il rosso, il blu e il violetto. Non occorre scomodare lo spiritualismo del colore teorizzato nell’astrattismo di Kandinskij per riconoscere nel rosso il sesso e la passione, nel blu la profondità e la contemplazione, ossia i due principi ispiratori che ci hanno condotto lungo il film.

E’ soprattutto il violetto, che nasce proprio dalla combinazione dei due suddetti primari e conoscerà (non a caso) un enorme successo tra l’Impressionismo e il Simbolismo, a suggerire, attraverso la metamorfosi e la transizione, una possibile risoluzione tra gli opposti della vita.

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