Inizio oggi una nuova carrellata di 10 recensioni, in cui proverò a farvi innamorare di altrettanti album di rara bellezza (proprio come i diamanti) ma che hanno, forse paradossalmente, la propria luce nella malinconia. In fondo molti di noi, diciamolo serenamente, siamo spesso attratti da film, libri o dischi che sembrano concepiti al crepuscolo, nella pioggia, nella nebbia offuscata dell’anima. L’unica spiegazione plausibile è che, verosimilmente, lo splendore che da queste opere artistiche riesce a scaturire ci serve per esorcizzare quel piccolo o grande dolore che in fondo un po’ tutti ci portiamo dentro, aiutandoci a stare meglio e a ridurne in parte il peso.
Il primo album che ho scelto è Queen of Denmark di John Grant che nel 2010 rappresentò il suo esordio come solista, dopo alcune ottime prove con gli Czars in cui, almeno in parte, aveva già evidenziato molte delle sue doti cantautorali (ascoltate, fra le tante, la sognante Paint the moon). Americano, ma recentemente trasferitosi in pianta stabile in Islanda, Grant non ha mai nascosto la sua omosessualità, ma nel contempo neanche i grandi problemi nel viverla serenamente. Questo buio che ha dentro è percepibile nella sua arte. Per rendere le sue melodie ancora più intriganti ha chiesto aiuto ai Midlake, band in Italia colpevolmente sconosciuta, che hanno lasciato il segno praticamente in ogni episodio.
Pur essendo pieno di canzoni dalla bellezza inestimabile, il disco presenta alcune vette estetiche (si tratta sostanzialmente di ballate) il cui valore si può comprendere a pieno solo ascoltandole non distrattamente, ma con la volontà di entrare in connessione diretta con l’autore.
Il tris d’assi iniziale appartiene certamente a questa categoria iniziando dall’acustica TC and honeybear in cui si capisce da subito che la voce morbida e unica di John Grant giocherà un ruolo fondamentale. I vocalizzi di donne sullo sfondo, come di sirene, forniscono poi al brano un’aurea quasi epica e senza tempo. Il piano e la chitarra con una duplice carezza aprono Marz che è forse il gioiello assoluto di questo prezioso scrigno che è Queen of Denmark e la cui melodia è talmente sensuale che è quasi impossibile non innamorarsene al primo ascolto. Così, quando sembra quantomeno improbabile che l’album possa proseguire su questi livelli, arriva un altro episodio disarmante: Where dreams go to die che ti avvolge in un crescendo di emozioni rese ancora più forti dall’entrata di archi sognanti.
L’inquietudine viene solo lievemente spezzata da un tocco di ironia con la più ariosa Sigourney Weaver in cui trovano spazio perfino delle chitarre elettriche, sostenute della succitata band. Ma il nocciolo dell’album, come detto, è fatto di altro e It’s easier e Outer space sono altri due morbidi regali inattesi che non smetteresti mai di ascoltare e riascoltare. In Caramel, dall’arrangiamento più elettronico, Grant tira fuori un falsetto da crooner che è il vero elemento distintivo del brano e ancora una volta si percepisce la sofferenza che deve aver provato nel cantarlo e pubblicarlo.
La chiusura del disco con la title track è un suggestivo colpo ad effetto, degno di quanto già evidenziato fino ad ora: parte lenta e sembra di trovarsi di fronte all’ennesima ballatona, ma dopo le strofe il refrain esplode in una rabbia rock che stravolge completamente la prospettiva. Altro capolavoro assoluto. A questo punto non penso di dover aggiungere altro se non rivolgervi un esplicito invito a verificare di persona se tutti gli aggettivi utilizzati in questo mio breve articolo corrispondano effettivamente, o meno, alla verità. Ho la ragionevole certezza che verranno confermati da molti.
«Non mi sono preso cura di me stesso, non pensavo che la mia vita contasse qualcosa»
John Grant