Notes on a Scandal è un film inglese del 2006 (trailer italiano), diretto da un uomo (Richard Eyre), tratto da un romanzo inglese del 2003 di una donna (Zoë Heller), che il The Guardian ha definito il 70º miglior libro del ventunesimo secolo. Straordinaria lei, nella stesura della storia, eccellente lui nel rappresentarla. La pellicola ha ricevuto quattro candidature ai premi Oscar, Judi Dench come miglior attrice protagonista e Cate Blanchett (immagine di copertina presa qui) non protagonista, miglior sceneggiatura non originale e migliore colonna sonora (eggrazie, è di Philip Glass!).

In effetti le due attrici sono un mostro di bravura, il film si regge sulla tensione senza pause che le due riescono a creare, stordendoci in un malessere crescente che diventa angoscia insopportabile, eppure sul niente. Straordinario.

Arriva una nuova insegnante di arte in un liceo di periferia (Cate Blanchett), svampita e incapace di tenere la disciplina in classe. La collega anziana (Judi Dench), dura, severa, solitaria, sola, ne viene rapita, come un po’ tutti, a scuola, colleghi e studenti compresi. Studenti soprattutto, tanto che Steven (Andrew Simpson, all’epoca attore minorenne), quindicenne nel film, se ne innamora (come si può innamorare un ragazzo della sua insegnante), insolitamente corrisposto: i due cominciano una relazione erotica, basata – si capirà poi – sulla solitudine di lei e sul senso di sfida di lui.

Pedofilia è naturalmente il nome del reato, a cui Blanchett sembra non pensare, soggiogata dal desiderio di lui, travolta dalla propria sensualità sopita da troppo tempo dentro una famiglia con un marito anziano (suo ex professore, perchè il karma non è acqua…) e due figli difficili, di cui uno down.

Il complice del manipolatore seriale
è la sua stessa vittima

Eppure non è questa la vicenda morbosa del film, che anzi è raccontata con garbo e concede allo spettatore persino la possibilità dell’identificazione (soprattutto se si è milf-friendly o cougar dichiarate). L’aspetto tetro, angoscioso, a tratti horror, è la rete di manipolazioni che Dench tesse intorno a Blanchett la quale, come ogni complice co-dipendente, contribuisce involontariamente a tessere, fino al compiersi della tragedia.

Tragedia, sì, perchè siamo dentro ad una vera e propria drammaturgia, altro che noir: mi verrebbe da citare Hitchcock, se non fosse inimitabile. I tempi, i volumi, il climax della sceneggiatura sono quelli teatrali, così come la resa scenica, costruita sul carisma delle due protagoniste: carnefice e vittima, solidali sempre, naturalmente.

Il lesbismo di Dench è assolutamente secondario rispetto al movente del ragno: la sua strategia manipolatoria verso Blanchett è fredda, tattica, perfida, ma compulsiva, ossessiva, seriale vedremo poi, dunque esonerata da ogni spietatezza di giudizio perchè non si tratta di una scelta ma di una coazione.

Se avete mai conosciuto un manipolatore (e ne avete conosciuti, lo so, perchè tutti i narcisisti lo sono e il narcisismo è la malattia dei baby boomers), se siete statə manipolatə, sapete bene che la vittima è l’altro remo della traversata, ingrediente necessario per il compiersi dell’alchimia, che la vostra fragilità è proprio quella che sacrificate all’altare del carnefice per poter essere confermate vittime. Ed è proprio questo l’aspetto angosciante e riuscitissimo del film: l’assistere impotenti alla connivenza di Blanchett, al suo collaborare affinchè Dench la distrugga, all’impossibilità di questa giovane donna vitale di trovare il coraggio di compiere la propria rivoluzione umana e di mettersi alla guida della propria vita.

Un film che, attraverso l’empatia e l’identificazione con l’unico personaggio possibile – l’irresistibile Blanchett – chiama a raccolta tutte le nostre vulnerabilità e ci costringe a prendere consapevolezza delle corresponsabilità ogni volta che assecondiamo i nostri subdoli sicari.

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