Probabilmente mi faccio portavoce di una metà delle persone (se non anche di più) per cui la matematica non è stata esattamente la loro materia preferita durante gli anni scolastici. Sempre presente, in ogni percorso di studi, una persona fa la sua conoscenza in età fanciullesca e non sempre questa conoscenza è idilliaca.

Anzi, è il caso di dire che la maggior parte delle volte questa relazione finisce alla prima buona occasione: la fine del liceo. Ad ogni modo, tutti impariamo sin da subito una delle primissime abilità matematiche: saper contare. Certo, chi a un livello base e chi invece sviluppa sempre meglio e sempre di più questa capacità.

“Il diritto di contare”: la storia di tre donne dotate di talento per i numeri

Come, ad esempio, le protagoniste del film Il diritto di contare, uscito nel 2017 nelle sale cinematografiche italiane e da febbraio di quest’anno disponibile sulla piattaforma streaming Disney+.

Katherine, Dorothy e Mary Jackson non solo hanno un incredibile talento nell’avere a che fare con i numeri, ma la loro capacità di saper contare si riflette anche sulle loro vite lavorative, raggiungendo traguardi che mai prima di allora erano stati neanche minimamente immaginati per delle donne; oltretutto afro-americane.

Il film, basato sull’omonimo libro di Margot Lee Shetterly, racconta la storia vera di Katherine Johnson, una matematica, scienziata e fisica che con il suo lavoro contribuì a calcolare le traiettorie per il Programma Mercury e per la missione Apollo 11, sfidando i pregiudizi e il razzismo degli anni ’60.

In quegli anni il sessismo sul posto di lavoro e la segregazione razziale erano aspetti della vita quotidiana ampiamente accettati. Una donna doveva ritenersi grata di avere un lavoro per contribuire alle spese della famiglia; perciò non era neanche minimamente pensabile che potesse ambire ad una promozione. Figurarsi per una donna afro-americana nel pieno dell’apartheid.

A tutti le stesse opportunità

Quello che semplicemente desiderano le tre protagoniste è un’occasione, l’occasione di avere le stesse opportunità degli altri a parità di competenze, l’occasione di giocare alle stesse regole di tutti gli altri.

Ma in questa partita per i diritti delle minoranze, è chiaro che l’arbitro propende spudoratamente per una squadra piuttosto che essere imparziale. E così le tre donne devono fare il triplo del lavoro per poter essere semplicemente viste, per poter essere anzitutto considerate come esseri umani.

Nonostante l’enorme fatica, nonostante i continui innalzamenti dell’asticella dell’inclusione e, soprattutto, nonostante le continue umiliazioni, le nostre protagoniste perseverano fino ad essere meritatamente ricompensate.

Non importa se Katherine deve farsi 1 km per poter andare in bagno (perché sì, i bagni per le persone afro-americane erano a questa distanza), lei li farà. Non importa se Dorothy deve studiarsi un libro-mattone per programmare il computer dell’IBM per evitare che decine di persone vengano licenziate, lei lo farà. Non importa se Mary Jackson deve frequentare una scuola serale perché non può frequentare corsi universitari per poter raggiungere il suo sogno di diventare un’ingegnere, lei lo farà. La meritocrazia e la perseveranza alla fine avranno la meglio sullo status quo.

Ciò su cui bisogna riflettere non è se queste problematiche legate all’integrazione e alle umiliazioni sul posto di lavoro siano state realmente superate, ma quanto lo siano veramente. Siamo sicuri che se vediamo una donna afro-americana (o in generale non caucasica) in un posto di lavoro, tutti, nessuno escluso, la considereranno una dipendente e non la donna delle pulizie (scena presente anche nel film Il diritto di contare)?

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