E’ difficile stare dietro ad Andrea Rangone quando racconta la sua azienda ed il suo modo di fare impresa: un fiume di iperattività e di idee. Caratteristiche che hanno permesso alla sua Digital360, nata 12 anni fa dalla ricerca universitaria a Milano, di crescere ad un tasso del 44%% l’anno e di fare acquisizioni in Europa e America Latina, scalando la leadership nei servizi per la trasformazione digitale del marketing e delle vendite e la rivoluzione tecnologica della consulenza.

Il terreno di caccia: le imprese pubbliche e le amministrazioni. La missione: fargli adottare l’innovazione digitale per uno sviluppo sostenibile. In Digital360 non c’è una fabbrica, è un diffuso regno del web: sei sedi italiane basate in spazi di coworking, dove lavorano persone selezionate perchè smart e unconventional.

Detto così sembra un paradiso. Rangone, ex professore universitario, oggi presidente di Digital360, che datore di lavoro è lei?
Brutta espressione, datore di lavoro. Non c’è l’Andrea Rangone professionista e il Rangone persona o animale sociale. Ce n’è uno solo. E così mi vede anche chi lavora qui: non sono la persona che paga lo stipendio e mi fa lavorare. Vale per me e vale per loro, tutte le caratteristiche si mischiano in un contesto di vita in cui attività sociali, personali e professionali si fondono in un tutt’uno. Perchè l’essere umano è uno solo.

Insomma, il valore aggiunto è costruire una comunità?
Le nuove generazioni cercano identità anche nel mondo del lavoro, vogliono un contesto in cui possano esprimere al meglio sé stess* in tutte le loro sfaccettature. Oggi soprattutto le persone talentuose vogliono essere protagoniste di sé stesse, improntando in modo diverso anche il rapporto di lavoro. Chi ha talento ha un potere negoziale e può giocare le sue carte. Chi non lo fa e sceglie il cosiddetto “Piano B”, di lasciare tutto, spesso può farlo perché economicamente e familiarmente gli è consentito.

Nel 2030 le imprese italiane dovranno redigere un bilancio di sostenibilità che comprenderà anche l’allineamento con i principi sociali e di governance. L’Italia è pronta? Non si rischia di ridurre tutto a un modo di lavorare inteso solo come impiego da remoto?
Anche se noi lavoriamo nel terziario avanzato, io non sono un estremista dello smart working, inteso semplicemente come lavoro da casa, ma sono assolutamente un sostenitore del lavoro intelligente. Cioè della capacità tua, del tuo capo, del tuo team di dosare il tuo tempo: quanto stare in ufficio, quanto non starci, quanto stare online e quando smettere, in che periodo farlo. Certo, starsene a casa è un elemento essenziale nell’equilibrio di una persona. Ma non è l’unico modo. Io dico: lasciamo che una mamma vada a prendere suo figlio all’uscita di scuola e che quell’ora non lavori. Se le lasciamo la libertà di farlo sarà felice, poi lavorerà meglio.

Andrea Rangone – presidente di Digital360

Alcune aziende fanno progresso in questo campo, ma nonostante ciò la fuga dei cervelli, dei talenti, non si ferma. Perchè?
Dicevo che sono i talenti a fare le differenze nelle aziende. La loro qualità tecnica, la professionalità, le competenze, ma anche la motivazione, l’entusiasmo, la serenità, e aggiungo anche la felicità. Che però va coltivata. Chi offre lavoro quindi non deve considerare i/le dipendenti come una commodity, per cui un* è uguale all’altr* e se non si adegua viene sostituit*. Il cambiamento deve partire anche da chi l’occupazione la offre, perché i giovani oggi cercano ben di più che un datore di lavoro, ben di più che fare delle attività o guadagnare uno stipendio. Nel mio settore la differenza la fanno le persone, con la motivazione e l’entusiasmo, anche l’affetto, la creazione di un contesto piacevole. Il datore di lavoro è un sofisticato progettista di un ambiente in cui si possono respirare tante belle cose. Un esempio? Noi quando progettiamo il nostro nuovo ufficio stiamo molto attenti alla possibilità che anche nell’ambiente di lavoro si creino zone informali che spingano alla socializzazione. L’imprenditore progettista è quello che tiene conto dei bisogni del collaboratore, della collaboratrice, della persona a 360 gradi.

Rangone, la diversità in azienda può diventare una ricchezza?
Certo. Per noi questo tipo di sensibilità è diventata un vero e proprio obiettivo imprenditoriale. Nel 2021 siamo diventati una società benefit, con obiettivi che vanno al di là di quelli strettamente economici. Ovviamente come tutte le società dobbiamo creare utili, anche importanti, ma chi decide di essere benefit sa che la propria impresa può avere ricadute importanti anche molto più ampie, anche sul territorio.

Per essere veramente una comunità di lavoro, bisogna accogliere tutt*. Non è facile.
Noi abbiamo aumentato l’inclusività con l’ingresso di categorie emarginate o fragili, come i NEET, i ragazzi, le ragazze, che non studiano e non lavorano, e che non lavoreranno mai se qualcuno non li/le prende per mano. E anche con gli ex detenuti, e alcuni detenuti in semilibertà. Collaboriamo con la Caritas Ambrosiana e con la Fondazione San Carlo. Insegniamo loro delle professioni, trasferiamo il nostro know how digitale, li/le seguiamo se possibile nel collocamento presso le aziende. Una società Benefit è qualche cosa che restituisce al territorio i benefici che ottiene con il suo lavoro. Con una crescita collettiva cresce il territorio e cresce la società.

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