Nel 2015 a Parigi quasi tutti i Paesi della Terra si riunirono nella Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP21) e sottoscrivendo l’Accordo di Parigi si impegnarono a cooperare per limitare il riscaldamento globale, mettendo in atto piani nazionali di intervento per la riduzione delle proprie emissioni di gas serra.

Il prossimo novembre a Glasgow si terrà il nuovo appuntamento internazionale per discutere del clima. La COP26, ovvero la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, analizzerà quanto gli accordi del 2015 siano stati rispettati, come sia mutato lo scenario climatico mondiale, quali iniziative intraprendere per tenere sotto controllo gli effetti del riscaldamento globale, quali strategie per contenere le ripercussioni sociali, politiche, economiche e le ricadute in termini di giustizia globale, intergenerazionale e transnazionale.

Purtroppo, a distanza di 5 anni, fare il punto della situazione è operazione molto sconfortante. Infatti, è ormai chiaro che i problemi ambientali, inclusi i cambiamenti climatici, sono anche lo specchio della condizione umana, delle relazioni instaurate tra gli individui, le comunità, gli Stati. Così, le questioni tecnico-scientifiche e politico-economiche non solo sottendono le forme contrattuali di organizzazione della società, ma affondano le loro radici in qualcosa di più profondo che ha a che fare con la natura umana.

Quale cambio di paradigma bisogna attuare a Glasgow?

Ma qual è il cambio di paradigma necessario per superare l’impasse? Come possiamo modificare i legami tra noi umani e i rapporti che ci legano alle altre entità che compongono il sistema Terra?

C’è un punto di svolta nella storia umana, che in questo momento vale la pena ricordare, apparentemente distante dalla questione dei cambiamenti climatici, ma che invece può offrire utili spunti di riflessione e aprire nuove prospettive. Proviamo a ripensarlo.

Siamo nel 1948. Solo da tre anni l’umanità ha messo fine alla seconda guerra mondiale, quell’orrendo massacro impostosi sulla storia con campi di sterminio, due bombe atomiche e milioni di morti. Una tragedia dalle dimensioni non facili da immaginare per noi umani di un nuovo millennio, dalla memoria labile, ormai distanti anni luce da quegli eventi, immersi nella velocità della modernità, disavvezzi al passo lento della riflessione.

Al termine di quella guerra, dopo che gli esseri umani si sono combattuti in ogni angolo del pianeta, il mondo va ricostruito, l’umanità rigenerata: il lato più oscuro dell’umano deve essere imbrigliato, quello più sano, creativo, vitale, autentico, solidale deve diventare il centro di un nuovo patto sociale globale.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) viene creata il 25 giugno del 1945, pertanto quando ancora la guerra non è terminata (si concluderà il 2 settembre 1945 con la capitolazione del Giappone). L’obiettivo è chiaro: preservare la pace, creando uno spazio di dialogo e di cooperazione internazionale tra gli Stati.

Il 10 dicembre di quel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva e proclama la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, lo straordinario documento che vuole sancire il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili”. Tale riconoscimento “costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

La prima parte dell’articolo 1 cita significativamente che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In primo piano due principi etici inderogabili, la dignità e la libertà, e il riconoscimento all’essere umano di diritti inalienabili. La seconda parte dell’articolo 1 pone invece l’accento sul dovere di agire verso gli altri “in spirito di fratellanza”, per intrinseca natura umana: una natura fatta di coscienza (di auto-riflessione) e di ragione (di pensiero razionale e di cultura), in grado di elevare il comportamento umano ad una dimensione di compartecipazione e solidarietà.

Questo articolo della Dichiarazione Universale stabilisce la contemporaneità di due pilastri nella costruzione di un futuro di pace e di progresso per l’umanità: i diritti e i doveri dell’essere umano. Dopo i soprusi e la volontà di sterminio dei totalitarismi usciti perdenti dalla seconda guerra mondiale, la Dichiarazione Universale segna un passaggio storico e morale epocale, anche se in 73 anni l’umanità assisterà ad una continua violazione di quei diritti affermati e sottoscritti e il mondo continuerà ad esibire contraddizioni e ambiguità di ogni sorta.

Lungi dall’intenzione di entrare nell’acceso dibattito che ha accompagnato in questi decenni quel documento, le obiezioni filosofiche, le questioni legali e politiche sollevate da più parti, tuttavia qualche considerazione può essere fatta alla luce della mutata sensibilità generale dei tempi moderni e della maggiore consapevolezza collettiva della diversità delle culture umane. Probabilmente oggi conosciamo l’essere umano più di quanto non fosse possibile nel 1948. Le scienze biologiche e naturali, la filosofia, le scienze umane, giuridiche ed economiche hanno affinato la nostra capacità di cogliere la complessità del mondo e la sua varietà culturale.

Un’etica della responsabilità

Se le vicende  pre e post belliche avevano evidenziato l’importanza di affermare quei diritti a tutto il mondo, in quanto ritenuti costituenti dell’essenza umana, oggi dovremmo andare oltre e renderci conto che i diritti umani sono le fondamenta su cui basare quel contratto sociale necessario allo sviluppo equo e responsabile della comunità umana. I tempi sono maturi per pensare ad un’etica della responsabilità che richiami ciascun essere umano, gruppo sociale, o istituzione al dovere di farsi parte attiva nell’assicurare universalmente quei diritti, come fondamentale riconoscimento della dignità umana. Un tale cambiamento di prospettiva si lega indissolubilmente alla presa di coscienza del valore intrinseco di qualsiasi entità anche non-umana, presente sul pianeta, per cui l’etica della responsabilità si fa necessariamente anche ecologica, diviene inevitabilmente geoetica, allargandosi a comprendere oltre all’umanità anche gli altri elementi viventi e non viventi che compongono insieme agli umani il complesso sistema Terra.

Per queste ragioni, non sembra poi così peregrina la possibilità di affiancare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani una Carta Internazionale dei Doveri Umani, come proposta nel libro Geoetica, edito da Donzelli, una carta concepita non come dettato giurisprudenziale, ma come mezzo mediante il quale ogni essere umano possa trovare la migliore espressione della propria umanità e il senso più profondo del suo appartenere al sistema terrestre.

La conservazione dell’abitabilità della Terra deve configurarsi prima di tutto come un problema di responsabilità umana individuale e sociale. Non può esistere cura dell’ambiente senza responsabilizzazione dell’essere umano. Un pensiero semplice, forse ovvio, ma che gli Stati della Terra riuniti a Glasgow dovrebbero considerare più attentamente mentre discutono di cambiamenti climatici.

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