Qualche giorno fa, il Financial Times ha riportato la missiva dell’amministrazione Trump che ha chiesto alle grandi aziende europee di rispettare l’ordine esecutivo che vieta i programmi relativi alla diversità, l’equità e l’inclusione (DEI). Varie ambasciate americane in Europa hanno infatti inviato una lettera ad alcune delle grandi imprese del Vecchio Continente indicando come l’ordine esecutivo firmato da Donald Trump si applichi anche alle aziende che sono fuori dagli Stati Uniti se sono fornitrici del governo americano.

La campagna americana contro la DEI

Siamo in mezzo a una violenta campagna americana contro la DEI, non c’è dubbio, ma, a mio parere, si tratta di una grande opportunità: la fine della DEI non è un ritorno al passato, ma un segnale di cambiamento. La lezione da imparare non è banale, infatti: se Trump e le destre hanno potuto affossare la DEI con un battito di ciglia, nonostante l’importanza universalmente riconosciutale, negli ultimi decenni, di questi temi, considerati valori imprescindibili dalle istituzioni moderne (aziende, governi e organizzazioni internazionali hanno investito importanti risorse e costruito politiche e governance con l’obiettivo di trasformare la DEI in azioni concrete), è perchè non si è creata una cultura dell’unicità realtà socialmente negoziata.

Per questo la caduta della DEI può essere un grandioso inizio di una riflessione più profonda su come costruire realtà realmente condivise e non sforzi artificiali di un perbenismo schiavo del politically correct. Per trasformare il mondo, occorre una interpretazione delle percezioni collettive basata su una osservazione laica della realtà: se ci fosse stata, ci saremmo accorte e accorti che la DEI non ha raggiunto quella massa critica necessaria per diventare una realtà negoziata collettivamente e che invece è rimasta ideale nobile, ma astratto, un concetto giusto in teoria ma inconciliabile con il sentire delle comunità.

Il suo fallimento, dunque, non dipende da una negata validità etica e morale, ma dall’idealizzazione elitaria di principi che non sono stati recepiti e digeriti dal basso, non sono diventati verità intuitive capaci di orientare spontaneamente le nostre azioni quotidiane. Appunto restando “ideologia woke”. Come direbbe il sociologo Erving Goffman pensando alla “falsa coscienza”, la DEI ha cercato di costruire un nuovo frame universale senza diventare la lente attraverso cui la maggioranza interpretasse la realtà, senza infondere quella spinta emotiva e cognitiva per diventare coscienza identitaria della collettività, senza riuscire a far parte della trama delle relazioni sociali.

Il costo cognitivo è stato troppo significativo

Ma perchè? Sicuramente, il costo cognitivo è stato troppo significativo: lo sforzo per comprendere i principi della DEI è troppo alto e non permette scorciatoie (lo spiagano bene le teorie del Premio Nobel Daniel Kahneman). Inoltre, la mente sociale non apprendono nuovi comportamenti attraverso l’autoaffermazione di principi morali astratti ma in base al processo di identificazione con tali principi, che avviene non per adesione magica ma per interesse collettivo, a partire da un desiderio condiviso.

Il monito è potente e, come scrive Matteo Flora,

“le idee, anche le più giuste, devono diventare realtà negoziate per avere un impatto duraturo. L’opportunità, ora, non è abbandonare i principi della DEI, ma comprendere come trasformarli in realtà effettiva. Serve una strategia più sottile, che sappia negoziare con il reale, superando le barriere cognitive e costruendo nuovi frame che possano radicarsi nella percezione comune”.

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