Solo ascoltandosi e mettendosi in connessione con la propria condizione desiderante è davvero possibile essere appagati. Roberto Marchesini nel suo ultimo testo Etologia del desiderio ci spiega le ragioni profonde del nostro essere animali desideranti. Ricoprire il desiderio come cura per sé stessi e per il futuro del mondo.

Il nuovo testo di Roberto Marchesini ci guida verso una rinnovata interpretazione della condizione umana a partire da una rilettura, secondo basi etologiche, della nostra dimensione di esistenza.

Secondo il filosofo ed etologo, infatti, l’uomo non sarebbe l’animale razionale – come gran parte della tradizione occidentale avrebbe asserito – quanto piuttosto un animale desiderante. Il desiderio diviene così la chiave d’accesso per comprendere i nostri comportamenti e la nostra fame di mondo.

Ma, attenzione, se si è sempre visto nel desiderio una spinta dovuta a una carenza Roberto Marchesini ci spiega come essere desideranti non sia frutto di una mancanza quanto, piuttosto, di una ridondanza interna e quindi di sistemi precostituiti che ci portano ad essere attratti da alcuni specifici oggetti nel mondo.

Non dobbiamo lenire una carenza dolorosa, non dobbiamo frenare le nostre pulsioni desideranti ma farci coinvolgere da esse e con esse ibridarci nel mondo per vivere la pienezza della vita nell’azione.

Quella di Roberto Marchesini è una nuova interpretazione della natura umana che permette di uscire dalle strettoie consumistico-nichiliste da cui siamo costantemente soffocati nella nostra epoca. Ho avuto il piacere di intervistare il professore al suo Centro Studi di Filosofia Postumanista a Bologna proprio riguardo questi argomenti fondamentali:

Quattro chiacchiere con
Roberto Marchesini

Tradizionalmente il desiderio è stato considerato come il risultato di una mancanza, mi viene in mente l’anfora bucata di cui parla Platone; quindi, un qualcosa che ci parla di una lacuna o carenza che deve essere riempita. L’interpretazione che lei offre al concetto di desiderio è invece sostanzialmente differente e si affaccia a un orizzonte etologico per ricostruire una vera e propria filosofia del desiderio capace di parlare in maniera differente della condizione umana. Ci va di esporcela?

Per spiegare l’interesse animale verso qualcosa e la costruzione degli obiettivi o delle aspettative che possiamo riscontrare facilmente in un animale, mi avvalgo di un esempio molto semplice: un gatto che si rivolge a una pallina per fare un gioco predatorio. Se pongo la pallina proprio di fronte al gatto, lui la colpisce con la zampa, facendola rotolare e poi la rincorre. È evidente che il gatto non vuole la pallina, bensì desidera rincorrere. La stessa cosa quando il cane ci ingaggia in un gioco e ci sfida, non vuole la treccia, ma competere. Se osserviamo un bambino in riva al mare mentre raccoglie conchiglie, possiamo credere che il suo desiderio sia rivolto a queste, ma il fatto che, tornato all’ombrellone il più delle volte se le dimentichi o le getti alla rinfusa, ci fa capire che il suo desiderio era raccogliere. Ecco io parto da una prospettiva totalmente opposta a quella tradizionale e più in linea con la tradizione etologica basata sulla motivazione che, fin da Konrad Lorenz, veniva considerata il vero movente del comportamento. D’altro canto, sappiamo che i nostri comportamenti sono retti da due fattori principali: 1) i sentimenti, espressioni delle emozioni e responsabili di ciò che proviamo verso ciò che accade; 2) le passioni, vale a dire tutte quelle tendenze che ci portano a compiere delle azioni finalizzate a un risultato, di cui le motivazioni sono la fonte. Per capire le motivazioni utilizzo una metafora molto semplice, quella del cosa-fa, ossia del predicato verbale: “Cosa fa un gatto? Rincorre. Cosa fa un essere umano? Raccoglie”. Il desiderio ha perciò una radice essenzialmente verbale, si basa cioè su un’azione, ed è evidente che implichi un obiettivo, ma la pallina per il gatto come le conchiglie per il bambino sono in funzione della voglia di rincorrere del primo e del raccogliere del secondo. Quindi il desiderare non nasce da una mancanza ma da un’esuberanza espressiva che si rivolge al mondo per costruire i suoi target e i suoi connotati circostanziali. L’esuberanza del desiderare, cioè della voglia di compiere delle azioni, rende possibili i desideri, che sono frutto delle circostanze, come essere in riva al mare, oppure della nostra immaginazione. 

Il desiderio è quasi sempre stato considerato dalla cultura occidentale come un limite alla realizzazione della dimensione dell’uomo razionale: i desideri si affacciavano a quella bramosia che impediva all’umano una vera azione cosciente sapientemente guidata dalla ragione. In questo suo ultimo lavoro questa visione viene capovolta seguendo un vettore di ragionamento differente, può dirci quali sono stati i suoi principali riferimenti per la costruzione di questo pensiero?

Ci sono anche filosofi che hanno rimarcato il ruolo dell’affettività nella costruzione del pensiero, non mettendoli in antitesi, ma ritenendo gli affetti e la ragione come due componenti complementari per il ragionamento. Penso, per esempio a Spinoza, che ha definito gli affetti complementari alla ragione, oppure a Giordano Bruno, che nel libro ‘De gli eroici furori’ parla del conoscere come frutto di due cani, il veltro che indica la ragione e il mastino le passioni, per non parlare di Nietzsche, che concorda con Spinoza circa l’importanza degli affetti, ma a differenza di lui ritiene che non si debbano temperare bensì liberare nella volontà di potenza. Del resto, la neurobiologia, con importanti autori, come Antonio Damasio, con il saggio ‘L’errore di Cartesio’, e Jaak Panksepp, con ‘Archeologia della mente’, hanno da tempo rivalutato il compito delle emozioni e delle motivazioni come induttori del pensiero. Del resto della stessa opinione era già Jean Piaget che considerava l’affettività come motore del ragionamento e dei processi di apprendimento, in linea con la visione dell’etologia che, prendendo le distanze dal behaviorismo che poneva lo stimolo come innesco del comportamento, rimarcava al contrario l’induzione endogena, come si può evincere dal modello psicoidraulico di Lorenz.

In questa epoca fatta di consumismo compulsivo in cui l’appagamento sembra non arrivare mai e in cui l’insoddisfazione costante regna sovrana non solo tra noi adulti ma in particolare modo tra i nostri giovani cosa significa e che valore ha una nuova interpretazione del concetto di desiderio?

Pensare il desiderio come carenza significa condannarsi a un’eterna insoddisfazione, perché se il desiderare nasce da un’esuberanza, cioè dalla voglia di compiere delle azioni, il vero appagamento non può derivare che dall’attività. Il risultato, in pratica l’oggetto del desiderio, dà solo una gratificazione momentanea. Per capire la differenza tra la gratificazione e l’appagamento faccio questo esempio: la gratificazione può essere paragonata a un cioccolatino, mentre l’appagamento a un bel piatto di pasta. L’oggetto dà un piacere molto passeggero e non calma il languore, mentre l’attività ci fa sentire in pace con noi stessi. Oggi sappiamo che nell’appagamento, vale a dire in questo senso di sazietà che toglie irrequietezza e inquietudine, intervengono importanti neuromodulatori come le endorfine e la serotonina. In altre parole, dobbiamo smettere di pensare che gli oggetti e i risultati possano darci quel senso di pace che rincorriamo inutilmente ed è anche sbagliato pensare che la felicità stia nell’assenza di sentimenti o di passioni. Il desiderio è voglia di azione e solo l’attività, cioè il dedicarsi a un’attività può darci soddisfazione. È evidente che ogni specie ha le sue motivazioni, come abbiamo visto nella diversità tra il gatto e l’essere umano, il primo interessato a rincorrere, il secondo a raccogliere. Giacomo Leopardi chiamava queste inclinazioni vaghezze e sottolineava come fossero frutto della propria natura, per cui la solitudine è ben accetta per il Passero solitario e fonte di sofferenza e rimpianti per il poeta.


Una rilettura del desiderio, secondo l’ottica offerta da Roberto Marchesini, può guidarci anche verso un futuro differente e quindi può essere capace di condurci verso un mondo non solo post-consumista ma anche post-capitalista suggerendoci delle logiche di sviluppo e di vita diverse anche secondo una prospettiva economico-politica?

Sono fermamente convinto di questo. Penso che il nostro modo di considerare il desiderio come mancanza abbia generato una visione distorta della vita, basata sul continuo stato d’insoddisfazione, che si è riflesso nella costruzione delle società. Se consideriamo il desiderio come mancanza siamo portati a considerare la soddisfazione nell’appropriazione, mentre se lo leggiamo come esuberanza, cioè voglia di fare, cercheremo la soddisfazione nell’attività. Questi due modi sono letteralmente opposti, perché l’appropriazione porta al consumismo, all’individualismo e, talvolta, al narcisismo, mentre l’esuberanza ci induce a dedicarci a un’attività, cioè dedicare la propria vita per un fine che è azione e non consumo. Scopriamo, cioè, che la felicità non sta nell’attribuire un significato edonistico e narcisistico alla propria vita, ma nel fare della propria vita un dono. Credo che questa consapevolezza sia importante oggi più che mai perché, a ben vedere, la crisi ecologica non è solo un problema che riguarda il come produciamo i nostri mezzi di sostentamento, ma l’idea che la nostra felicità sia appropriarci del mondo. È un problema che riguarda l’individuo, che si trasforma in quell’essere che Giorgio Gaber chiamava l’obeso psicologico, è un problema che riguarda l’umanità, perché sempre più ci rendiamo conto che l’essere umano, a differenza di quanto pensava Heidegger, non è un costruttore bensì un distruttore di mondi.  

È evidente, seguendo i suoi ragionamenti, come una visione di desiderio come quella da lei offerta e quindi come spinta generativa e realizzativa nei confronti del mondo, come chiamata e dialogo con ciò che ci circonda sia più proficua di quella che ci ha guidato fino ad oggi. Certo, si tratta di porre in discussione molto della nostra condizione umana, ma cosa, secondo lei, in particolare?

Si tratta di superare l’idea che si possa trovare un senso alla propria vita dentro sé stessi, con un’operazione di solipsismo esistenziale. La ricerca di un senso fa appello inevitabilmente a un’operazione che trascende la propria vita, per cui cercare un senso rimanendo rinchiusi nel perimetro della propria esistenza è chiaramente un controsenso logico. Ci sono molti modi per declinare la trascendenza, quello che suggerisco parte proprio dall’interpretazione del desiderio. Il desiderio ha a che fare con l’attribuzione di senso, ma non nel modo edonistico che gli viene affidato oggi: tanto piacere, mille esperienze, etc. Se il desiderio è azione in potenza, l’atto della dedicazione e della donazione di sé diventa fondamentale per capire cosa realmente ci rende felici. Io l’ho capito quando finalmente ho realizzato che il mio compito era quello di dedicare la mia vita in un’attività che fosse utile agli altri e all’umanità: trovare un accordo con l’universo dei viventi, superare l’appropriazione antropocentrica del mondo. Penso che questo insegnamento sia presente in tutte le grandi tradizioni filosofiche e spirituali, magari declinato in forme differenti, ma in fondo comune a tutte.

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