Cosa rende un videogioco narrativo? E cos’ha a che fare il videogioco narrativo con la riscrittura dell’immaginario, ovvero il lavorio sommerso di ampliamento delle prospettive socioculturali con le quali raccontiamo il contemporaneo, guardando il futuro? 

Una possibile definizione è forse questa: si tratta di prodotti d’intrattenimento basati sull’interattività e dotati di un gameplay volto a supportare gli snodi di trama più di ogni altra cosa — ecco la maggior differenza rispetto ad altri tipi di videogioco. La meccanica di gioco è inestricabilmente avvinta alla storia, esattamente come in un pezzo narrativo tradizionale. A farla da padrone, qui, è la possibilità di manovrare l’andamento degli avvenimenti scegliendone la direzione tramite bivi, enigmi, scelte di vita addirittura: i personaggi di qualsiasi simulazione sono burattini tra le zampe di chi, da gamer, gioca a far Dio, si sa. 

Risorsa inestimabile per questo genere di prodotti d’intrattenimento è la cosiddetta PG, procedural generation: tramite algoritmi, origina semi-casualmente strutture, oggetti, eventi e lo fa durante l’esperienza di gioco, solo quando vanno materialmente impiegati. Qualsiasi creatura, pianeta o astronave di No Man’s Sky, per esempio, si spawna/genera proprio a partire dalla PG, personalizzando di fatto l’esperienza di fruizione da gamer a gamer. Storicamente siamo dalle parti di Beneath Apple Manor, Rogue, Elite: a partire dalla fine degli anni Settanta e fino ai Novanta, passando per Diablo, epocale, e raggiungendo Spore nei primi Duemila, assistiamo all’evoluzione di uno strumento raffinato volto a programmare, è il caso di dirlo, un pirotecnico caos attorno all’esperienza dell’utente finale. 

Ma non tutti i videogiochi narrativi fanno utilizzo della procedural generation. Alcuni, come Thimbleweed Park, rientrano appieno nella categoria eppure prevedono una narrazione assolutamente composta, lineare — e non per questo meno ricca. Com’è possibile? Siamo dalle parti dell’avventura grafica, va detto. Ricordate la fortunata, iconica serie di Monkey Island, oppure Maniac Mansion, solo un paio d’anni prima? Beh, dietro ci sono sempre loro: Ron Gilbert e Gary Winnick. 

La trama gioca un importantissimo ruolo, in quest’immersione citazionista anni Ottanta che spreme la nostra fascinazione per il vintage nostalgico e la mette a sistema, anzi la eleva a potenza. Seguiamo infatti Angela Ray e Antonio Reyes, agenti FBI che sono parenti stretti dei Molder e Scully di X-Filesiana memoria, entro una cittadina sonnolenta che nasconde il classico fattaccio di genere — la Thimbleweed Park del titolo, per l’appunto. Alla loro indagine si sovrapporranno e intrecceranno i patemi personali di alcuni personaggi aggiuntivi, memorabili quanto giocabili: Delores, wannabe programmatrice; Ransome, pagliaccio maledetto (nel senso di vittima di maleficio, s’intende!); Franklyn, tipico soggetto dalle… faccende in sospeso, per evitarvi spoiler di sorta.

Se la narrazione e la metanarrazione restano al centro della storia, uscita nel 2017 con grande soddisfazione e di critica e di pubblico, altro grande elemento che ne fa tuttora la fortuna è che si tratta di un mezzo narrativo che, come qualsiasi avventura grafica, prescinde dall’abilità di chi ne fruisce: questo fa sì che, di fatto, il gioco si limiti a richiedere un apporto attivo davvero minimo da parte di chi sta davanti allo schermo, consentendo perciò di raggiungere un target finale decisamente più ampio rispetto al videogioco d’altra natura. (Un po’ come accadde qui da noi poco prima con Tony Tough e la notte delle falene abbrustolite, buffo titolo tutto italiano e pieno punta-e-clicca, per intenderci. Erano i primi anni duemila, ma non è detto che Tony sia invecchiato malissimo: provare per credere.)

Parliamo dunque di un videogioco narrativo in tutto e per tutto (anche senza procedural generation) se il livello di soddisfazione che il prodotto regala è quello di farci sentire, al termine, persone lettrici e spettatrici e autrici, al contempo — e non, come da gaming classico, vincitrici soltanto. La distinzione è tutto fuorché futile o sottile, a ben guardare.  L’interazione tra contesto digitale, gamer e sistema porta a una brillante ridefinizione dei confini tra letteratura aumentata (ricordate quando ne parlavamo qui?) e ludus in senso stretto. Eccoci dunque al cospetto di uno di quei prodotti ibridi in grado di viaggiare sul confine tra i media narrativi, e anzi cercarsi spazio, prendervi residenza, arredare la zona, espanderla ancora. Rendendo la sfumatura un valore aggiunto anziché neutrale o deteriore. E abbattendo le gerarchie tra mezzi di narrazione — soltanto un sogno, ancora. Per poco.

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