“Femminismo di periferia”, un libro dal margine della città
Il libro di Martina Miccichè prende le mosse dal quartiere Comasina di Milano per raccontare delle periferie del mondo.
Il libro di Martina Miccichè prende le mosse dal quartiere Comasina di Milano per raccontare delle periferie del mondo.
Ho assistito alla prima presentazione italiana del libro di Martina Miccichè, Femminismo di periferia (Sonda edizioni), nella sede di Rob de Matt, un’associazione milanese che con il margine e la marginalità ci lavora da anni (persone con disagio psichico, rifugiatə, ex carceratə), e lo fa in uno di quei quartieri che una volta erano, per antonomasia, la periferia, mentre oggi sono una strana terra di riqualificazione, con tutte le sue contraddizioni.
Una serata travolgente, in cui l’autrice, insieme a Selam Tesfai e Cristina Cotorobai, ha intessuto una trama appassionata e arrabbiata fatta di decolonialità, di lotta di classe e diritti animali, in una sala gremita di persone attente e coinvolte.
La periferia di cui parla Miccichè è la Comasina, quartiere di Milano in cui è cresciuta e che le fornisce la prospettiva da cui guardare alla vita, alle disuguaglianze sociali e ai movimenti, primo fra tutti Non Una di Meno. Femminismo di periferia è un libro dal margine della città. Un libro che da questo margine racconta in modo semplice e al tempo stesso profondo il binarismo di genere, il razzismo, il carcere, il diritto alla casa, la giustizia climatica, il rapporto con la natura e con le specie non umane.
Anche se il luogo da cui parla l’autrice è la Comasina, e la città di cui svela le contraddizioni è la capitale economica d’Italia, la periferia è un’idea molto più ampia. Nel mio caso, mi ci ritrovo facilmente, perché sono nato in quella che era un’altra periferia milanese, e che oggi è al centro di uno dei più noti progetti di gentrificazione, con tanto di nuova denominazione un po’ cool, NoLo (North of Loreto: un po’ patetico, tutto sommato). Ma Miccichè racconta anche di altre periferie, come quelle di Parigi, Giacarta o Ulan Bator. E parla di periferie rispetto agli assetti globali, i margini rispetto al centro neocoloniale delle nazioni bianche e industrializzate.
Le periferie sono un luogo definito da altrə, da chi detiene il potere di decretare chi è dentro e chi è fuori dal centro: un centro con i suoi diritti, il suo welfare efficiente, la sua immagine patinata. Le periferie sono luoghi dove le contraddizioni sono più forti. Per esempio, è qui che si vede meglio che cosa significa uno spazio pubblico a misura di maschio, uno spazio di costante pericolo per i soggetti non eteronormati; ma è anche il luogo in cui si sviluppano forme di sorellanza quotidiana, implicita, potente. La periferia è la zona della società in cui si riproduce incessantemente la razzializzazione dei corpi, un processo sancito poi simbolicamente da monumenti come la contestata statua di Indro Montanelli: un monumento non diverso da tante statue erette in onore di uomini schiavisti e sessisti nei paesi occidentali.
I margini delle metropoli sono anche un luogo a misura d’umano, dove le altre specie vivono un’esistenza difficile, assediate dalle conseguenze del cambiamento climatico e dalla supremazia umana. L’autrice lancia, dal margine, un appello a una diversa convivenza fra le specie. Non un appello generico, ma una denuncia dello sfruttamento animale, a partire dal luogo di violenza specista per eccellenza: il mattatoio, nonluogo relegato al margine del margine.
Un appello per il veganismo, anche, ma per un veganismo non classista, femminista e decoloniale. Un appello alla solidarietà con l’autonoma resistenza degli animali non umani, che si ribellano ogni giorno negli zoo, nei circhi, negli allevamenti, come racconta da anni il blog del progetto “Resistenza animale“. E che incessantemente si ritagliano lo spazio vitale anche nelle città umane: sospinti ai margini delle foreste dagli effetti del climate change e dall’estrattivismo capitalista, si riprendono spazi insospettati, ricevendo risposte ostili ed escludenti che ricordano da vicino le modalità con cui la Fortezza Europa tratta coloro che migrano dal sud del mondo.
Femminismo di periferia non è però solo una spietata descrizione del margine: ne è al tempo stesso una celebrazione. L’identità – persino l’orgoglio – di chi la periferia la vive traspare da ogni pagina. E proprio dalla periferia sembrano provenire le uniche speranze di cambiamento. Le esperienze che l’autrice menziona non sono i grandi progetti istituzionali, i grandi partiti progressisti che ormai hanno poco da dire a chi vive ai margini, ma al contrario sono i collettivi, i gruppi di quartiere, le assemblee.
L’attivismo minore, potremmo dire. Sono “SMS”, lo Spazio di Mutuo Soccorso che a Milano, nel quartiere San Siro, promuove il diritto alla casa, le occupazioni, l’integrazione sociale, il consumo solidale, la lotta alla violenza di genere. Sono Ippoasi, rifugio antispecista di Pisa che da anni ospita animali di diverse specie fuoriusciti dal circuito dello sfruttamento, organizzando laboratori, seminari, momenti conviviali, una libreria, e intessendo rapporti con altri progetti di lotta all’insegna di un trasfemminismo multispecie fondato sulla cura. Sono i percorsi di mobilitazione come la Marciona milanese, che costruisce
“Un momento politico nel mese del Pride prendendo le distanze da tutto quel rainbow washing che attraversa le parate cittadine”.
Sono i femminismi di periferia.