Premiato con Oscar e Golden Globe, nel 1946 Gaslight arriva al Festival di Cannes e in Italia (Angoscia). Remake di una pellicola dallo stesso titolo prodotta nel 1940 per la regia di Thorold Dikinson, il film del ’44, firmato dal regista americano George Cukor, ha continuato nel tempo ad accumulare tormento e potenza fino a diventare, nel 2001, uno dei thriller considerati migliori al mondo dall’American Film Institute.

Strepitosa davvero Ingrid Bergman, e meritatissimo l’Oscar come Migliore attrice protagonista. Per interpretare il ruolo di Paula, una donna che lentamente impazzisce, visse un periodo in un istituto di igiene mentale studiando una paziente per poterne riprodurre ogni singola espressione del viso, lo sguardo, il modo di muoversi.

Ma cos’è che fa impazzire Paula? Appunto il gaslighting, termine oggi diventato consueto nella letteratura clinica (Calef e M.Weinshel, 1981) a partire da questo film, e che consiste in una forma di violenza psicologica tesa a disorientare la vittima, la quale, attraverso un “bombing” di false informazioni, comincia a dubitare di se stessa, della sua percezione, della sua memoria. Qualche esempio? Si nega che alcuni episodi siano mai accaduti, che alcune cose siano mai state dette. Nel film, il marito porta la moglie alla follia manipolando piccoli dettagli, come affievolendo le luci delle lampade a gas (da cui il titolo): lei si accorge di queste variazioni ma lui insiste nell’affermare che sia lei a ricordare male o inventarsi le cose. Per intenderci, la famiglia Manson, nota per molti shockanti crimini nell’America degli anni ’60, entrava nelle case senza rubare nulla, ma semplicemente spostando i mobili per conturbare i proprietari al loro rientro.

La filmografia sul gaslighting è ricca: si va da La ragazza del treno (2016), in cui il marito sfrutta l’alcolismo dell’ex moglie per indurle falsi ricordi, al mitico Shining, fino alle serie tv, da Homeland a Jessica Jones, fino a Westworld. Alla fine della prima stagione di Homeland, Carrie Mathison dubita di sè fino a sottoporsi a elettroshock; in Jessica Jones, favoloso goal di Netflix sulla supereroina della Marvel che soffre di disturbo post-traumatico da stress, Kilgrave manipola la mente di chiunque fino all’induzione suicida e con Jessica usa il suo potere costringendola ad essere sempre premurosa anche contro la propria volontà.

I gaslighter sono al 90% partner, e il gaslighting è a tutti gli effetti un abuso. Ma qual è il fine di un partner gaslighter? Certamente di ottenere una serie di vantaggi relazionali, primo tra tutti il controllo totale dell’altro, la dominazione. Ovviamente stiamo parlando di un vero e proprio disturbo psicologico che in genere descrive una personalità sociopatica o narcisistica patologica. Proprio la presenza del disturbo implica che il gaslighter spesso non sia consapevole di esercitare una manipolazione del partner e si ritenga in buona fede. Questo atteggiamento è molto pericoloso perchè la vittima di gaslighting, co-dipendente dal suo manipolatore che quindi non riconosce come tale, può arrivare, appunto, ad impazzire, come nel film, a gravi stati depressivi, o addirittura al suicidio.

Si tratta dunque di una grave disfunzione delle relazioni affettive, molto insidiosa e subdola, difficile da riconoscere (e quindi da denunciare) per la vittima co-dipendente, e anche molto grave per le conseguenze di cui parlavo. Ma quali sono i profili del gaslighter e della sua vittima? Spesso il gaslighter è una persona fragile con bassissima autostima che crede che alterare la realtà e avere la sensazione (illusoria) di avere su di essa potere sia l’unico modo per essere amato e voluto. Il co-dipendente (la vittima) è di solito una personalità immatura, con poca autonomia, scarso senso di responsabilità, molto bisognosa di approvazione da parte degli altri.

La tecnica del gaslighter è basata sulla distruzione di tutti i punti di riferimento del partner: attraverso una progressiva svalutazione, si insinuano dubbi sul suo sistema di valori, sulla sua lealtà, intelligenza, anche sulle sue relazioni affettive, fino a condurlo all’isolamento totale. Altro elemento è il condizionamento: quando la vittima si uniforma alla visione malevola che l’abusatore ha di lei, ecco che arriva un premio (in genere la conferma in termini di desiderabilità, ossia la profferta sessuale, oppure qualche cenno di stima). Infine, la sparizione, ossia la punizione massima: quando la vittima dissente, anche solo impercettibilmente, dalla cosmogonia del suo abusatore, ecco che le viene negata in toto l’accesso alla relazione. Il gaslighter scompare, rifiuta di colpo ogni comunicazione, portando la vittima a colpevolizzarsi di quella rottura, diventando ancora più dipendente e autonegata.

Stiamo ampiamente nell’ambito dei danni alla persona e nell’ottica della tutela risarcitoria fondata sul gravissimo oltraggio alla sfera personale, relazionale ed emotiva. Ma come si colloca la lesione di diritti inviolabili della persona nell’area dell’abuso emozionale perpetrato dal gaslighter? Secondo una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., trova ampiamente spazio il danno esistenziale inteso come cambiamento in pejus dell’esistenza del danneggiato e come compromissione dell’attuazione e dello sviluppo della propria personalità. Nel 2009 il Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio riconosceva nelle “Linee guida per l’accertamento del danno psichico e da pregiudizio esistenziale” proprio il danno da gaslighting precisando che “è importante considerare il funzionamento psicologico nell’ambito di un ipotetico continuum che va da un funzionamento psicologico non alterato e funzionale, ad un funzionamento sconvolto e modificato rispetto al periodo precedente all’evento traumatico. Esso interessa le modificazione della personalità e dell’assetto psicologico nel suo adattamento, nei suoi stati emotivi, nella sua efficienza, nella sua autonomia, nella sua autostima e nella percezione della propria immagine psichica e corporea. Si tratta di valutare l’alterazione dell’equipaggiamento mentale successivamente all’evento traumatico e alla sofferenza psichica”.
Buone notizie: le condotte del gaslighter realizzate nel rapporto coniugale potrebbero costituire il presupposto per il riconoscimento dell’addebito della separazione laddove si dimostri che i comportamenti ostili del coniuge abusante abbiano di fatto reso impraticabile la convivenza e irrecuperabile la rottura dell’unione matrimoniale. La fonte migliore sul gaslighting la trovi qui.

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