L’altro giorno, cercando materiale per i settant’anni di Francesco De Gregori, mi è capitato sotto gli occhi un documentario, questo della Rai – e sempre sia lodato chi l’ha conservato su YouTube. Dovrebbe intitolarsi Cercando un altro Egitto, come la sua canzone onirica e allucinata del 1974, e racconta il tour estivo di Terra di nessuno, uno dei dischi più ostici (e meno venduti, e volutamente ermetici) della carriera del Principe. Siamo nel 1988, lui ha trentasette anni ma artisticamente potrebbe mostrarne già sessanta, visto che è ossequiato come venerabile maestro in maniera persino prematura, su spinta di un passato gigantesco da cantautore quando la moda era proprio quella lì, e lui era una pop-star (la rivoluzione culturale di Rimmel, Banana Republic con Lucio Dalla, Viva l’Italia). Certo, poi il contesto è cambiato, e al di là degli ossequi improvvisamente all’epoca è diventato per tutti uno difficile da inquadrare, perché con gli Ottanta il palco d’onore per un musicista è passato dall’essere la festa de L’Unità a Domenica in, e l’Italia fatica a riconoscerlo e ad apprezzarne l’impegno politico. Per carità, è reciproco: Terra di nessuno parla anche di questo, di isolamento, di non riconoscersi nel proprio Paese.

Quindi niente, questo per dire che anche in una situazione così paradossale, anche quando forse non valeva poi così tanto la pena sporcarsi le mani e andare in giro, Francesco De Gregori se ne va lo stesso in tour, e l’immagine che ne danno le telecamere della Rai è quella di un operaio della musica, fra conferenze noiose, furgoni e macchine (guida lui!), tempi morti, tappe su tappe. Così: come fosse l’ultimo arrivato, come se fosse lui stesso il primo a voler esorcizzare quell’aura di intoccabile, da guardare quasi con circospezione, che gli è stata affibbiata.

E il trittico di album live, da trentaquattro tracce complessive, formato da Catcher in the sky, Niente da capire e Musica leggera esce nel settembre 1990 quando la situazione non è affatto cambiata, e proprio per questo riassume su disco proprio lo spirito di quei concerti lì. Sono capitoli sepolti nel suo curriculum, vuoi perché pubblicati senza troppo clamore, come operazioni minori, vuoi perché tecnicamente sono da considerarsi bootleg, e quindi registrati con una qualità inferiore, senza grosse pretese. Però, ecco, se De Gregori è il nostro Dylan lo è anche, probabilmente, per il rapporto coi concerti in stile neverending tour, e in queste registrazioni sporche ci sono strada, polvere e in generale – dicevamo – quella dimensione operaia davvero sua, ma che stenta a uscire in dischi live più patinati (e venduti) come Il bandito e il campione o lo stesso Banana Republic.

Invece qui la foto è davvero sfocata, piena di chicche in zona folk d’autore, altrove mai ammesse: le registrazioni grezze e minimali del Folkstudio (fra cui l’intima Natale e una Due zingari quasi à la Daniel Johnston), la versione quasi country di Rimmel (riarrangiamento, ok, ma molto più sicuro di quello esotico recente), una Generale persino regale – con lunga intro e tastiere à la 80s imprevedibile – e una La storia mai tanto leggera. Nella loro umiltà, in dimensione spartana, frugale, di applausi e grazie brevi e ricorrenti e sinceri, questi pezzi nascondono l’ossessione preziosa per i concerti di Francesco De Gregori, intesi come esibizioni senza sovrastrutture, senza fronzoli, appuntamenti di strada in cui mettersi a nudo.

Poi certo, che quello del cantante sia un mestiere molto più normale di quanto noi gente siamo portati a immaginare, specie se visto nella propria routine; lui lo avrebbe ribadito nel 1997 con La valigia dell’attore, secondo una prospettiva per cui le esibizioni perdono retorica trionfalistica e artistica diventando uno show – misero, ma non per questo meno accogliente (anzi) – di un artigiano dell’intrattenimento, di un giullare malinconico che con le canzoni cerca di strappare soldi e sorrisi. Ci sta, ma le parole spesso non arrivano dopo i fatti, e questo trittico di dischi sepolti ci fa vedere davvero lo scheletro di Francesco De Gregori e della sua filosofia dal vivo. Cioè quella dell’artigiano, di chi si spoglia e si mette in gioco, di chi sta meglio in carovana che a casa. Una filosofia che – sottinteso – non vediamo l’ora di ritrovare intatta in scena in qualunque parte d’Italia, quando si potrà.

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